Regia di Joon-ho Bong vedi scheda film
Che Bong sia uno dei più importanti registi coreani contemporanei è cosa nota, e in questo caso si è decisamente superato, ritornando in qualche modo ai fasti di Memories of Murder, sua memorabile opera seconda. Ovviamente, Parasite è un film completamente diverso, ma del resto il regista non è nuovo al cambio di genere, così come non è affatto nuovo alla commistione dei generi (basti pensare al suo precedente opus: Okja). Difficile infatti inglobare, meglio costringere, produzioni come The Host o Snowpiercer o Mother, come del resto le altre già citate, entro generi ben definiti.
E questo suo nuovo, eccezionale, Parasite non fa certo differenza: parte come quasi innocua commedia dai contorni comunque socialmente rilevanti e man mano si sviluppa, senza quasi che lo spettatore avverta il cambio di registro, in un thriller angosciante dalla tensione montante e irresistibile, fino a culminare nel più inaspettato grand-guignol. E, come da manuale, sfugge a qualunque etichettatura e frettolosa definizione. E’ un film sfaccettato, complesso e pieno di risvolti e di possibili letture nonché sfumature. Come notato da molti, probabilmente lo spettatore trarrebbe beneficio da una seconda e perché no anche una terza visione. Difatti, cogliere ogni possibile sfumatura non è impresa facile.
Parasite è un film spiazzante, ma nel senso migliore del termine, che racconta di una realtà che si sta facendo, via via, sempre più insostenibile. Una realtà crudele e impietosa che però, sorprendentemente, i protagonisti paiono affrontare con il sorriso sulle labbra, nonostante tutte le tribolazioni. Le diseguaglianze tra ricchi e poveri si fanno sempre più rilevanti e la società sempre più atomizzata, ma la simpatica famigliola tenta comunque di tirare avanti (d’altra parte, cos’altro si può fare?) ricorrendo a mezzi più o meno leciti (ma, dopotutto, chi non ha niente non può permettersi di avere troppi scrupoli), mentre i signori, i ricchi, i benestanti, capricciosi e volubili, vivono una vita vuota e incolore, si nascondono in meravigliose costruzioni isolate dal mondo esterno come castelli medioevali, preoccupandosi di amenità irrilevanti e palesando, al contempo (o forse proprio per questa ragione), una paurosa vacuità intellettuale (sarà infatti molto semplice per gli scaltri protagonisti circuire i due ricchi coniugi esaltando il loro ego facendoli sentire possessori di una superiorità intellettiva e culturale che in realtà non possiedono affatto [memorabile la scena della “parte schizofrenica del dipinto”, nel corso della quale la geniale Ki-jung convince l’ingenua signora della necessità d’una fantomatica “terapia artistica” da lei inventata seduta stante]).
Gli stessi benestanti che solo apparentemente paiono migliori di altri, meno meschini e meno inclini ad annichilire la "servitù", ma che poi, come c’era da aspettarsi, si dimostrano comunque d’un egoismo senza pari (non facendo niente per aiutare gli altri e aspettandosi che gli altri facciano tutto per loro, rimanendo se necessario a guardare quando ci sarebbe invece da intervenire [vedi il finale]) e dimostrano inoltre d’essere realmente convinti della loro superiorità che a quanto pare deriverebbe loro unicamente dal denaro ("non superare la linea", ovviamente, vale solo per i servitori, per quelli più in basso...). Ma anche i meno abbienti, per necessità o per paura, finiscono, tragicamente, per scontrarsi tra loro, non sempre agiscono "rettamente" (e difatti rovinano delle persone che sono esse stesse di povera estrazione) e nel finale non vince nessuno. La realtà non è così semplice come in certi filmetti: è tendente al grigio. La realtà non fa sconti (e la possibilità di un lieto fine, o anche solo di una pacata riconciliazione, appare una chimera).
Una scena, su tutte, sintetizza mirabilmente la gran parte delle tematiche del film: quella della tempesta. I protagonisti, fuggiti dall’immensa villa, s’affrettano in una sorta di “discesa agli inferi” fino ai recessi più bui e ai “sotterranei” più invisibili della loro grande città, solo per vedere quel poco di vita che avevano finire completamente stravolta. Le piogge devastanti sconvolgono radicalmente la loro vita e quella di tanti altri (forse solo per poco, tuttavia ciò non cambia i fatti), ma il giorno dopo i ricchi proprietari della casa non si preoccupano d’altro d’organizzare una sciocca festa a sorpresa per i loro “figliol prodigo”, ignorando del tutto i segni del disastro intorno a loro ed anzi rallegrandosi che il tremendo acquazzone abbia portato un po’ di salubre “aria fresca” (dimostrando, una volta in più, di vivere in una specie di "bolla" del tutto separata dal mondo esterno, che non sia quello di altri facoltosi come loro).
Due condizioni (economiche e sociali) inconciliabili, un’agghiacciante indifferenza e talvolta una dolorosa condiscendenza (quando non proverbiale “puzza sotto il naso”) da una parte, e una sospirata sopravvivenza, un anche poco onesto arrabattarsi, una punta di cinismo e però quasi paradossalmente una maggiore e più profonda umanità dall’altra (ben presto, se non altro, i quattro si pentiranno infatti di come si sono svolte le cose con la governante). Insomma, le classi non sono mai scomparse, e con esse il contrasto, l’animosità, la lotta (anche tra pari, peggio ancora tra poveri, ed è questa la cosa più triste).
Quello di Bong è un film di sottilissima ironia (e satira), di grande compartecipazione e commozione (col proseguire della visione) e di grande spessore, per altro diretto magistralmente. Il controllo sulla forma del regista, difatti, è totale: la cura nella costruzione delle inquadratureimpeccabile e i cambi di tono, come già detto, sono gestiti alla perfezione (d’un tratto ci si rende conto di star trattenendo il respiro “a causa” d’una tensione quasi intollerabile quando solo fino a poco prima si stava sorridendo).
Ma il quasi ineccepibile risultato finale è molto dovuto anche alla fotografia e alle ottime interpretazioni degli attori (soprattutto d’un sempre eccellente Song), qualità innegabili della messinscena che insieme alla profondità e alla complessità tematica, fanno sorvolare su eventuali esagerazioni nella narrazione, che comunque fanno parte del gioco, ovvero della costruzione del discorso.
Parasite è un film memorabile, uno dei migliori film della stagione, senza ombra di dubbio, e altrettanto sicuramente uno dei film che più si meritano tutti gli encomi di cui è stato ricoperto. Dunque, meritatissima anche la Palma d’Oro a Cannes (prima volta in assoluto per un film coreano). Forse grazie anche alla storica vittoria francese, il film si è rivelato un eccezionale successo di pubblico in patria (e meno male), mentre da noi probabilmente verrà prima o poi distribuito con la solita limitante formula dell’“evento speciale”. Non impareremo mai.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta