Regia di Jordan Peele vedi scheda film
People Like People Like People Like Us
Un colpo di scena non fa un film.
(Il metaforone steroideo, neppure. Il repertorio citazionista, il cóte extrafilmico postmoderno e modaiolo, figurarsi)
Peraltro, inaspettato.
Al primo minuto.
Poi, appena dal racconto si aprono come ali di pavone le immagini che delineano la scena-emblema, chi un minimo mastica di horror e di giallo (e di buon senso), intuisce facilmente.
Difatti, nonostante il dilatarsi/accumularsi/ripetersi di sequenze e dialoghi e simboli e fiotti di sangue esangue, l'intuizione trascende puntualmente in fatto.
Ma, appunto, Us non risiede (soltanto) nel suo telefonato/shyamalanico/sciamanico colpo di scena. (O, se vi risiede, sarà un clandestino emerso dalle fogne senza permesso)
Quindi?
Quindi, boh.
Invero, non c'è un granché da sviscerare da interiora così pulite ed esibite in bella luce, a mero (passivo) godimento del famelico spettatore-consumatore.
A meno di non sottomettersi al giogo del demiurgo e fare il suo (noioso) gioco, enunciando tesi, esponendo ragioni, spiegando cose (come lo spiegone crasso di Lupita/Adelaide/Red alla lavagna: che tedio!), esaltando retorica della morale (che tedio II, anzi II:II), drenando linfa critica dal cadavere filmico dissezionato per il giubilo di maestro e studenti.
Jordan Peele non è il doppelgänger di sé stesso perciò il suo riflesso non produce altro che il riflesso dell'originale. Bando a ogni originalità – checché se ne dica, checché se ne legga, maledizione –, e schiavo del suo forte brand di vendicatore/fustigatore, usa armi abusate (sia nella messa in opera che nell'omnicomprensivo pacchetto metaforico-satirico), per il seguito del fortunato Get Out (di gran lunga preferibile).
Il risultato di siffatto sforzo creativo è uno pseudo-horror irrorato da forti umori di satira politica (evidente, banalmente, fin dal titolo) innocua – perché risaputa, basica, strumentale – quanto forbicine colorate dalla punta arrotondata. Insomma, un giocattolo, dalla lettura primaria e immediata.
Un impianto teorico fallace, e, ancora peggio, convenzionale: la riflessione sul crollo del modello americano, sulle ipocrisie della società del benessere, sulla lotta di classe giunta forse al punto di non ritorno (tale che preluderebbe a una rivoluzione populista degli ultimi, dei dimenticati), soccombe sotto il peso di una rappresentazione sin troppo lucidata, ragionata, incapace di creare reale inquietudine né disturbo alcuno.
Non lascia niente.
Fatta eccezione per la performance di Lupita Nyong'o, eccellente e strabordante.
Ad affossare in definitiva ogni istanza e pretesa è la scrittura, assai debole: la narrazione ha un crescendo standardizzato per gli home invasion, le conclusioni sono balordamente implausibili e sfociano nel risibile (un castello di sabbia che si scioglie alle primissime gocce di sudore finto), i personaggi hanno lo spessore di figurine di cartone; la teoria cospirazionistica, beh, è messa lì solo per fare numero di prestigio.
Come il sorprendentissimo coup de théâtre: che sòla.
Puntare solamente sul famelico testo/sottotesto, sulla commistione di registri (ma l'ironia è relegata a un paio di battute e scenette piuttosto scemette), sull'ammassamento di oggetti iconici e inserti “strani” che ovviamente hanno riferimenti alt(r)i (i conigli … che poi, gli aranciovestiti sanno fare divise, organizzare complessi flash mob, costruire affilatissime e stilosissime forbici ma cucinarli no, eh?), e sui valori registico-produttivi, è l'atto estremo di un cinema osannato ma che non sa osare né si sporca, mai.
Un cinema ipocritamente americano.
Che piace (e si piace).
Alla gente come noi.
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