Regia di Ciro Guerra vedi scheda film
Il produttore Michael Fitzgerald era da almeno 20 anni che stava cercando di portare sullo schermo il fortunato romanzo del 1980 Aspettando i Barbari (Waiting for the Barbarians, pubblicato in italia da Einaudi) del sudafricano (e Premio Nobel) John M. Coetze riuscendovi solo recentemente graze a una coproduzione internazionale guidata dall’italiana Iervolino Entertainment, anche distributore del film, e affidandone la regia al colombiano Ciro Guerra, al suo primo film in lingua inglese, che si era guadagnato una candidatura agli Oscar per il miglior film straniero nel 2016 con El Abrazo de la serpiente, e su una sceneggiatura, la sua prima in ambito cinematografico, dello stesso Coetzee.
La pellicola, che debutta alla 76a Mostra del cinema di Venezia del 2019 concorrendo anche per il Leone d’Oro, si divide in quattro episodi (Estate - il Colonnello; Inverno - La ragazza; Primavera - Il ritorno; Autunno - Il nemico) ed è una storia sospesa nel tempo e nello spazio, di ambientazione impropria tra profumi orientaleggianti, spirito colonialista ed elementi ottocenteschi a ribadire ulteriormente la propria atemporalità rappresentata da una storia di confine, di incontri (e scontri) e di riscatto morale, che vuole essere allo stesso tempo un po saggio storico e un po trattato d’attualità.
Non ho letto il romanzo omonimo ma da italiano è praticamente impossibile vedendo questo film non pensare immediatamente a Il Deserto dei tartari di Dino Buzzati e all’omonimo film diretto da Valerio Zurlini con cui ne condivide il fascino crepuscolare dei temi e delle scelte stilistiche ma anche i tempi dilatati e compassati tipiche di un certo cinema d’autore, non facilissima per un pubblico mainstream ma scelta ricercata e funzionale alla storia ma soprattutto coerente con il percorso, intimo e sofferente, del suo protagonista.
Ed è proprio sulla frontiera, terra di confine tra ciò che l’ha creato, quel confine (il passato) e ciò che vi è oltre, ancora inesplorato (il futuro) con le sue incertezze e le sue paure, che si inserisce lo scontro tra il cieco colonialismo e la cultura illuminista, tra l’uomo giusto e quello scellerato, tra la verità e la prepotenza, tra chi guarda all’alternativa come a una risorsa e a chi in un delirio paranoide vuole affermare con la forza la propria identità.
Il Magistrato è l’emblema di questa criticità, della moralità che si scontra con la legalità falsificata dagli abusi e di una coscienza morale che cerca di imporre un’etica a una ragion di stato oscurantista e vittima della propria retorica.
Il finale del film, prendendo le distante dal romanzo di origine, cerca ulteriormente di aggiungere, oltre a una conclusione maggiormente cinematografica, altri elementi di ambiguità a un racconto che non vuole giungere a una conclusione ma lasciare allo spettatore, per quanto possibile in quanto comunque indirizzata, una propria interpretazione.
Assoluto protagonista nel ruolo quasi martirizzato del Magistrato è Mark Rylance, dolentissimo (anche troppo) ma non privo di umanità e (soprattutto) speranza, in una performance intensa seppur pacata e ricca di moltissime sfumature. Insieme a lui in ruoli seppur importanti con una presenza molto minore, un granitico Johnny Depp in un personaggio compassato quanto crudele, ben interpretato ma fin troppo stilizzato, e un inadeguato Robert Pattinson, eccessivamente stereotipato e spesso troppo sopra le righe in un ruolo troppo marcato.
Di tutt’altro spessore invece le interpretazioni femminili, a partire dalla modella di origine mongola Gana Bayarsaikhan, lanciata in Ex-Machina, esotica e misteriosa “barbara” di cui si invaghisce il Magistrato e, di rincalzo, la disincantata e umanissima Greta Scacchi, unico vero legame affettivo per il Magistrato di Rylance.
Ma più che la storia e gli interpreti a spiccare è soprattutto la splendida fotografia di Chris Menges e la scenografia curatissima del pluricandidato agli Oscar Crispian Sallis e dell’italianissimo Domenico Sica, coadiuvati da un reparto tecnico di eccellenza e che parla tantissimo italiano, dai costumi di Carlo Poggioli al montaggio di Jacopo Quadri fino alle musiche dal leit motiv orientaleggiante, di Giampiero Ambrosie e che mostra un’attenzione maniacale per i dettagli che arrivare a rasentare quasi la pefezione.
VOTO: 6
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