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Waiting for the Barbarians

Regia di Ciro Guerra vedi scheda film

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La recensione su Waiting for the Barbarians

di supadany
8 stelle

Venezia 76 – Concorso.

«Non bisogna mai avere paura dell’altro, perché tu rispetto all’altro, sei l’altro» (Andrea Camilleri).

È sempre stato complicato essere un uomo giusto. In qualsiasi settore, è conveniente essere accomodanti e seguire pedissequamente le indicazioni impartite dalla persona più alta in grado. Se necessario, arrivando anche a tapparsi il naso e nascondere la testa sotto la sabbia, agendo contro i propri ideali. In cambio, la carriera sarà agevolata, colpendo positivamente gli altri aspetti della vita personale.

Inevitabilmente, un uomo retto non può sottostare all’indicibile, qualsiasi esse siano le conseguenze delle sue azioni. Non può accettare che un odio ingiustificato passi in cavalleria, inquinando in un lasso limitato di tempo un lavoro di comprensione e condivisione durato anni. Non può farlo anche sapendo di infilarsi in una strada sprovvista di vie d‘uscita.

In una zona di confine di un impero non meglio specificato, un magistrato (Mark Rylance) predilige la via del dialogo per evitare di scontrarsi con i nomadi che occupano l’area da tempi immemori.

Questa linea viene sconfessata all’arrivo del Colonnello Joll (Johnny Depp), che definisce barbari da sottomettere le popolazioni del deserto.

Il magistrato viene messe alle corde, soprattutto dopo aver soccorso, curato e difeso una ragazza (Gana Bayarsaikhan), gravemente ferita dopo le torture subite dai soldati. Proprio per aver condotto una missione speciale per riconsegnarla alla sua gente, verrà messo sotto torchio dal sottufficiale Mandel (Robert Pattinson), arrivato in loco durante la sua assenza.

Nonostante le pressioni esercitate, il magistrato non rivedrà nessuna delle prerogative che lo animano.

 

Mark Rylance

Waiting for the Barbarians (2019): Mark Rylance

 

Girato in Marocco e prodotto (anche) dall’’italiana Iervolino Entertainment, Waiting for the barbarians è l’adattamento dell’omonimo racconto scritto dal premio Nobel J. M. Coetzee nel 1980, diretto dal regista colombiano Ciro Guerra (El abrazo de la serpiente, Oro verde – C’era una volta in Colombia).

Suddiviso in capitoli (Estate: Il colonnello - Inverno: La ragazza - Primavera: Il ritorno - Autunno: Il nemico), non ha una precisa collocazione storica o geografica, grazie al lavoro dettagliato e non univocamente identificabile del costumista Carlo Poggioli e dello scenografo Domenico Sica.

Quest’impostazione intende valorizzare l’universalità dell’enunciato, associabile a vari territori, al passato così come all’attualità, con la frontiera identificata come luogo d’incontro/scontro, dove aumentano le differenze tra gli esseri umani e le isterie prendono facilmente il sopravvento, giustificando un’offensiva preventiva.

Così, una cattedrale nel deserto, edificata in una terra inospitale, diventa il genius loci per coltivare il conflitto tra la comprensione e l’aggressione, punti di vista antitetici rappresentati da un uomo onesto oltre ogni ragionevole dubbio e un apparato sordo e interventista. In questo scenario irrompe la prepotenza che sconvolge un equilibrio instabile, usando un nome per un altro (nomadi/barbari), ricorrendo a ogni tipo di pressione per ricavare la (sua) verità (di comodo), soverchiando ogni forma di dialogo con la sopraffazione, le torture (veramente crude) e lo sterminio, nell’ottica di tagliare la testa al toro il prima possibile.

Ciro Guerra analizza questa congiuntura con una mappatura paziente, radicata nella Storia dell’umanità, e un’attenta descrizione delle prese di posizione, marchiate dagli interpreti. Se Johnny Depp è asciutto come non mai (attenzione, occupa comunque un ruolo secondario) e Robert Pattinson sta diventando un collezionista seriale di autori, a brillare è la stella di Mark Rylance. Le sue espressioni sono inconfondibili (Il ponte delle spie, Il GGG – Il grande gigante gentile), trasmettono un calore umano inequivocabile, introiettano la dolenza dell’uomo solo, l’impotenza al cospetto di cotanta brutalità ma anche una pace interiore che lo obbliga – sempre e comunque – ad agire mosso dalla rettitudine, inseguendo il bene comune senza esigere nulla in cambio (al massimo chiede gentilmente).  

Anche grazie alla sua memorabile interpretazione, Waiting for the barbarians assume i connotati di una riflessione trasversale, sul dna (dis)umano, sui danni procurati dalle ideologie belligeranti, sul colonialismo, su come ogni persona sia parte integrante del meccanismo che produce odio e quanto costi ribellarsi, alzare la mano in segno di dissenso e non sottostare al giogo del potere dominante, anche condannandosi a un futuro di stenti (in un modo o nell’altro, non può che finire male).

Ammirevole.

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