Regia di Roberto Benigni vedi scheda film
Buongiorno principessa, spero che per te lo sia davvero, perché per me lo sarà di certo. Da quando ti ho vista quella mattina non ho fatto altro che pensare a te, ogni istante della mia vita, da quando la mattina apro gli occhi a quando la sera li chiudo, e poi, ti sogno ogni notte. Avevo paura di parlare con te, ma poi ho scoperto che invece era meraviglioso farlo. So che non potrò essere il tuo principe, ma sono felice anche solo di sapere che esisti, quindi... buongiorno principessa.
Le musiche di Nicola Piovani potrebbero riassumere tutto il film. Lo stile del compositore lo conosciamo bene, essendo stato l’autore di musiche già per Nanni Moretti (“Caro Diario” e “La messa è finita”) e Federico Fellini (“La voce della luna”). Si passa velocemente da accenni di musica leggiadra, limpida, serena, a sprazzi di musica drammatica, una serie di sensazioni che solo il pianista sa dare. E forse è anche così “La vita è bella”, il film più famoso di Roberto Benigni, quello che lo ha consacrato come nome di spicco della cinematografia italiana, europea e mondiale. Nel film assistiamo gradualmente ad un rovesciamento e paradossalmente allo stesso tempo allineamento di due differenti storie, eppure unite da un filo conduttore unico. L’amore. L’amore per una donna, che è quello che muove la prima delle due parti dell’opera, la donna è Dora, una splendida ma impacciata Nicoletta Braschi, insegnante in una scuola elementare, di cui Guido/Benigni, è follemente innamorato. Innamorato a tal punto che farà qualunque cosa pur di rimanerle vicino, pur di tentare di farle capire i suoi sentimenti, fino a che lei capirà, ricambierà e i due si sposeranno. Questa prima parte è forse la migliore del film: è invasa da un’aura magica, di completa meraviglia, dono tranquillità, trasmette in un certo modo, un senso di dolcezza assoluta, né troppo mielosa, né troppo aggressiva, dolcezza al punto giusto. La storia è quella, tipica, di un uomo povero che si innamora di una donna che si sta per sposare con un uomo ricco, che per giunta, odia questo uomo povero. Anzi, l’odio è reciproco. Ma alla fine, anche il personaggio che prende le sembianze dell’antagonista nella storia d’amore deve arrendersi all’amore stesso, e alla dolcezza. E’ pieno di dolcezza il personaggio di Guido, un giovane ebreo che si trova ad Arezzo. Il Benigni attore riscatta completamente le sue inevitabili pecche da regista, riuscendo a trasfigurare la sua solita maschera da saltimbanco, che è comunque immancabile, rendendola più idonea al contesto trattato, specialmente nella seconda parte del film. Seconda parte che narra della deportazione in un lager nazista di Guido e di suo figlio Giosuè, nato, naturalmente, da Dora. E qui avviene, l’ormai celeberrima, recita di Guido, che dovrà fingere che tutto l’orrore dell’Olocausto e dei campi di concentramento sia solo un gioco, per rendere il tutto meno duro e traumatizzante per il bambino. Anche qui l’amore è quello che tiene in gioco tutta la recita: l’amore per il proprio figlio, il voler evitare di renderlo esposto ai pericoli di cotanta perfidia e idiozia umana. Il volerlo in un certo senso proteggere. Una scommessa vincente il sesto film di Benigni: tentare la carta del tragicomico, con una sceneggiatura originale, anche se riprende in un certo senso, sia nei toni che nelle ambizioni, la recitazione di Charlie Chaplin, tragica e comica insieme. Viene da pensare ad esempio, che so, a “Il Grande Dittatore”, che è un capolavoro proprio di tragicommedia artistica. Ma naturalmente non si debbono fare paragoni assurdi, anche perché il film di Benigni ne uscirebbe completamente distrutto. “La Vita è Bella” è un esperimento interessante e riuscito da parte del regista, che rischia anche moltissimo nel repentino cambio di storia, di tono, di luci, passando da una storia patinata, da sogno, come quella d’amore con Dora, a una di morte, di distruzione come quella nel lager tedesco. Da notare la sensibilità artistica con cui Benigni accompagna tutta la seconda parte della storia, e la leggerezza, che non va confusa con superficialità, con cui fa passare tutto l’orrore dell’Olocausto, rendendo gli spettatori quasi ignari, come il bambino Giosuè: e proprio in questo gioco di detto e non detto, di maschere, lo spettatore si ritrova smarrito, bambino, tale è l’abilità di Benigni nella recita. Sebbene abbia moltissimi pregi, non si possono nascondere anche i molti difetti dell’opera. Il Benigni regista molte volte è grezzo oltre il limite e qui forse è in una delle sue peggiori performance dietro la macchina da presa. Stavolta, la strabordante comicità dell’attore toscano, che viene tenuta a freno, spesso e volentieri, non basta a riscattare una prova registica poco soddisfacente. Altro punto di debolezza, il fatto che alcune scene appaiano forzate, quasi a ricercare la risata a tutti i costi, la sdrammatizzazione non sempre riesce bene, e in alcuni tratti a Benigni la storia scappa di mano. Immeritate le critiche del popolo ebraico, sul fatto che il Robberto nazionale abbia trattato la Shoah con superficialità: grazie a questo film, molti genitori hanno risolto il dramma di dover raccontare ai figli della Shoah. A parte la semplice ironia, le critiche sono davvero inutili e stupide: l’orrore non può che essere trattato come orrore ed è giusto così, ma il toscano si pone davanti l’obiettivo di rendere il tutto più docile per il proprio bambino, per non fargli conoscere l’orrore, per renderlo magari più felice. Non è superficialità, anzi. Benigni tratta la Shoah come un orrore vero e proprio, anzi, fa tanto schifo e paura, da dover essere mascherata come una recita, per non mostrarla. Io sono sempre stato abbastanza critico con Benigni, e devo ammettere di non aver mai apprezzato nella sua completezza l’opera, che non è né perfetta, né un capolavoro come spesso si dice. Ma resta comunque un film commovente, dolce fino a far piangere, importante per la nostra cinematografia, che ci ha regalato anche degli Oscar e un premio della giuria in quel di Cannes. Il film si conclude magnificamente, su un carro armato Giosuè abbraccia la madre e urla “Abbiamo Vinto!”. Si, abbiamo vinto.
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Bada chi si rivede!
Aaaaah pensavo che ti fossi dato al free jazz punk inglese, bentornato Viola!
ahahahahahaha grazie, grazie!
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