Regia di Roberto Benigni vedi scheda film
Benigni regista ha due difetti. Uno, congenito, è il respiro corto: la sua comicità è più da tv che da cinema, non regge la durata di un intero film (e infatti funziona per es. in Tu mi turbi, che è un insieme di sketch). Il secondo difetto, acquisito, si chiama Nicoletta Braschi: da quando Benigni costruisce i suoi film in funzione di lei, relegata nell’eterno ruolo della fatina (mentre invece, diretta da altri, ha saputo usare tonalità diverse: vedi Ovosodo), il livello si è ulteriormente abbassato; una così incondizionata devozione nei confronti della propria compagna può anche commuovere, ma non si capisce per quale motivo lo spettatore medio dovrebbe emozionarsi alla vista di un bimbetto che esce dal suo nascondiglio e fa “buongiorno, principessa!”. Credo che con questo film, di una bruttezza quasi inconcepibile, Benigni abbia toccato il fondo (dico “credo” perché non ho visto i successivi, né mi interessa vederli): non a caso ha vinto l’Oscar, perché dà degli italiani appunto l’immagine furbastra e dolciastra che piace tanto negli USA (e lo spettacolo orrendamente cheap di donna Sofia che proclama il vincitore gridando “Roberto!” meriterebbe una stroncatura a sé). La prima parte, contenente i soliti lazzi e frizzi del comico, è in fondo la meno insopportabile. Poi il tono vorrebbe farsi serio, e allora comincia il disastro. Le leggi razziali? tutto risolto con una scenetta sull’insegna di un negozio (qualcuno ha spiegato a Benigni che i bambini ebrei vennero esclusi dalle scuole pubbliche e che quindi per loro non era possibile non accorgersi di nulla? rivedere Concorrenza sleale di Scola, che sarà anche un po’ didascalico ma spiega come stavano le cose). Il lavoro forzato? una scena di pochi secondi in cui Benigni trasporta un peso e dice “ohi ohi, non ce la faccio più” (senza scomodare Primo Levi, persino un filmaccio turgido e declamatorio come L’ebreo errante di Alessandrini mostrava immagini meno edulcorate). Il soldato tedesco che enumera le regole del campo, in una scena che vorrebbe essere comica ma è solo imbarazzante, sembra uscito dalle strisce di Sturmtruppen. Pensare poi anche solo lontanamente che l’aspetto fisico di un bambino deportato potesse consentirgli di venire confuso tra i figli degli ufficiali, come a un certo punto cerca di fare il padre, significa non avere la minima idea delle condizioni materiali in cui si trovava (e questa volta scomodiamolo, Levi: “la razione alimentare era decisamente insufficiente anche per il prigioniero più sobrio: consumate in due o tre mesi le riserve fisiologiche dell’organismo, la morte per fame, o per malattie indotte dalla fame, era il destino normale del prigioniero”). Insomma tutto il film sembra commissionato da qualche storiografo revisionista, oppure da uno di quei politici per i quali il confino equivaleva a una vacanza. E non mi si venga a dire che è una fiaba: si può trasformare in fiaba anche la storia di una vittima di pedofilia (lo fa De André in Leggenda di Natale: “e venne l’inverno che uccide il colore / e un Babbo Natale che parlava d’amore / e d’oro e d’argento splendevano i doni / ma gli occhi eran freddi e non erano buoni”); però bisogna trovare il tono giusto per raccontarla, che non è certo quello insulso e beceramente ridanciano scelto da Benigni. A dare il colpo di grazia, nella versione internazionale, la voce off del bambino diventato adulto.
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