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La vita è bella

Regia di Roberto Benigni vedi scheda film

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La recensione su La vita è bella

di LorCio
6 stelle

Il sesto film di Roberto Benigni è sicuramente il più ambizioso della sua filmografia e contiene, in una sorta di compendio professionale, la poetica, la comicità, la tragicità del giullare Benigni. Se vogliamo, è un film geniale, che parte come una buffa e romantica farsa toscana e sfocia nella tragedia dell’Olocausto. Forse più del film sono geniali alcuni espedienti narrativi: l’idea di far credere al bambino che sia tutto un gioco, Guido che va a morire senza tradire la messinscena del gioco.  Eppure, al netto della commozione, qualcosa non convince: La vita è bella, sin dal titolo, è un film sfacciatamente ruffiano. La costruzione della storia si articola in due parti ben definite: la prima è una divertente sintesi di colore strapaesano, fiaba popolare e tenera storia d’amore (il povero buono innamorato della principessa promessa al ricco cattivo), fotografata con vivacità da Tonino Delli Colli, che si regge sul movimento del corpo sciolto di Benigni colto nell’infinito corteggiamento nei confronti della maestrina Nicoletta Braschi (la parentesi quasi magica del teatro, la sovversione nella scuola diretta da Giuliana LoJodice, il cavallo di desichiana memoria); la seconda è la cupa discesa agli inferi illuminata dall’amore paterno, una ricostruzione dell’orrore mitigata da una visione necessariamente edulcorata dalla destinazione familiare del prodotto.

 

Ovviamente chi non versa qualche lacrima nell’ultima parte è senza cuore, ma è comunque altrettanto vero che è un film abilmente costruito con l’obiettivo di far piangere, strizzando l’occhio alla sensibilità del pubblico in un’esposta progettualità melodrammatica. Non a caso è stato premiato in ogni dove: nel diluvio di premi, il trionfo dei tre Oscar su sette nomination (film straniero, attore protagonista, musica drammatica all’eccellente Nicola Piovani), è da segnalare, se non altro maliziosamente, per la singolare presenza del carro armato americano che nel finale libera il campo di concentramento. Resta un classico della nostra cinematografia, visto praticamente da tutta la popolazione italiana, ultimo vero fuoco del magico Benigni, affiancato in sede di sceneggiatura dal fido Vincenzo Cerami, e come attore da almeno due presenze da sottolineare: l’ambiguo gerarca appassionato di indovinelli Horst Buchholz e soprattutto l’immenso zio di Giustino Durano, la cui unica scena nel campo è da applausi a scena aperta.

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