Regia di Cèline Sciamma vedi scheda film
Céline Sciamma si conferma regista di grande talento e di grande intelligenza e sensibilità. Archiviato una volta per tutte il discorso della “discriminazione di genere” (io stesso erroneamente mi ci soffermai in occasione del suo primo film “Naissance de Pieuvres”), ed appurato che a Sciamma interessa filmare (e ragionare di) unicamente l’universo femminile (cosa del tutto lecita: sarebbe come rimproverare ad un pittore di dipingere solo barche e mai alberi), la regista francese prosegue con la sua “Girlhood” (titolo inglese per “Diamante Nero”, suo terzo film che conto di recuperare presto essendo l’unico che non ho visto) spingendo l’acceleratore ancora di più. Ed ecco che la “Femminanza” così tanto nel cuore dell’autrice esplode in questo “Portrait” in tutta la sua potenza, escludendo completamente ogni maschio dalla narrazione e dal ragionamento, senza che né l’una né l’altro (narrazione e ragionamento) restino minimamente zoppi, come se il mondo della Sciamma fosse davvero un mondo in cui vivono solo donne, e questo mondo sia perfettamente possibile. Un piccolo miracolo, forse, Ma forse solo il frutto di una profondità alla quale pochi autori sanno arrivare tanto quanto lei. E dunque evviva.
La spiegazione “scientifica” di questo miracolo (almeno parzialmente), si può però trovare in questa conversazione pubblica della Sciamma insieme a Valeria Golino, in special modo quando la regista si sofferma a sottolineare l’egualitarismo, l’equilibrio, la parità totale dei personaggi del film: la pittrice, la donna che le commissiona il lavoro, la ragazza che dovrà dipingere, finanche la piccola domestica presente in questo luogo solitario e buio (un utero materno, forse, separato biologicamente dal resto del mondo) che sarà così “naturalmente” accompagnata dalle due protagoniste nel doloroso percorso della sua indesiderata maternità, sono poste tutte sullo stesso medesimo livello, sullo stesso piano in termini di dignità, di importanza, di attenzione.
Una trama ridotta all’osso, due ore che passano in un istante fatte di sguardi, di intese, di tempi sospesi. L’amore che non è un fine, e nemmeno un mezzo, ma diventa semplicemente il sangue che porta ossigeno all’organismo affinché questo possa vivere.
Una fotografia maestosa e semplice allo stesso tempo, un’oscurità onirica che si interrompe di tanto in tanto con dei “Bianchi” accecanti, pulsazioni, risvegli. E una regia formidabile nei tempi e negli spazi, senza parlare della prova meravigliosa delle due attrici protagoniste, bravissime ad assecondare le intenzioni della regista. Un po’ stonata, invece, la prova della Golino la quale, come spiega lei stessa nella medesima conversazione di cui sopra, è stata forse eccessivamente “svuotata” dalla Sciamma, finendo per sembrare un fantasma. Unico (e piccolo) neo di un film davvero bello.
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