Regia di Cèline Sciamma vedi scheda film
Una storia disseminata di minacce di morte, nel mare, per aborto, per fuoco.Ma non muore nessuno, la morte vera è quella che non si vede, cova dentro, consuma.
Poiché di ritratto si parla, una citazione dalle indagini sulla percezione visiva.di E.H.Gombrich aiuta a decodificare il film.
Parlando dei numerosi autoritratti di Rembrandt Gombrich dice:
“I grandissimi tra i ritrattisti probabilmente devono poter ricorrere ai due meccanismi della proiezione e dell’identificazione e aver la stessa padronanza di entrambi…. Uno dei maggiori ritrattisti dei nostri giorni mi ha detto una volta che lui non sapeva mai cosa vuol dire la gente quando parla del pittore che rivela il carattere del modello. Lui non sapeva dipingere un carattere, sapeva solo dipingere una faccia. Ho più rispetto per questa severa opinione di un vero maestro che per i discorsi sentimentali sugli artisti che dipingono le anime. Quando tutto è stato detto e fatto un grande ritratto ci dà sul serio l’illusione di vedere la faccia dietro la maschera”.
E un corollario : “L’idea neoplatonica del genio i cui occhi possono penetrare oltre il velo delle pure apparenze e rivelare la verità”
Una necessaria premessa da un grande Maestro sul tema dell’immagine e il suo doppio, elemento centrale, polarizzante, nella complessa elaborazione artistica di temi che Céline Sciamma mette in scena.
La complessità risiede nell’intreccio di linee che entrano in sinergia.
Il filo narrativo, molto tenue, sostiene abilmente in bilico (pensiamo al sottilissimo filo del telegrafo che regge la massa di corvi neri di Hitchcock) alcune delle ragioni per cui si vive o si muore, si ama o si odia, si è animali pensanti o solo “tubi digerenti” , come disse il buon Sartre.
Linee in sinergia.
L’arte innanzitutto.
In apertura la pittrice ( Noémie Merlant) si tuffa in mare vestita di goffo e pesante abito da classe povera del ‘700. Siamo certi che affogherà e invece recupera il box di legno con il suo prezioso carico di tele da dipingere.
Si arrampica fradicia sulla scogliera verso il castello che l’ospiterà il tempo per fare il ritratto, il rozzo marinaio (unico maschio del film, di un altro che s’ingozza in cucina vedremo solo un brevissimo flash muto) la molla sulla battigia senza tanti complimenti.
Lei è una donna intensa, corvina, gli occhi neri assorbono le cose intorno, la mano le trasforma in immagini sulla tela.
Heloise ( Adèle Haenel) è l’oggetto del desiderio di cui l’arte si appropria e che trasforma a sua immagine.
Chiara quanto l’altra è scura, debole quanto l’altra è forte, non conosce l’amore, è vissuta come una crisalide chiusa nel bozzolo di un convento e, ora, di un castello da cui uscirà sposa di un uomo sconosciuto di nobile lignaggio.
E il matrimonio ci sarà dopo che lui avrà visto il ritratto e deciso che la fanciulla è di suo gradimento.
Il cinema, si sa, compie miracoli. In questo caso quello di mettere in sintonia discorsi poliedrici e farne una sinfonia.
Il ritratto è difficile, Heloise non si presta, la pittrice deve assorbire e memorizzare i suoi tratti durante le passeggiate davanti a quel mare che ribolle, un mare dove Heloise non si è mai tuffata.
Eppure il ritratto cresce, si anima, diventa qualcosa di cui sarà impossibile dire chi guarda l’altra, la modella l’artista o viceversa, l’immagine da illusione diventa realtà e dunque amore.
Dai tempi di Pigmalione il mito ha raccontato la storia vera dell’uomo, l’artista non può che amare il suo oggetto, ma è qui che il film di Sciamma diventa storia vibrante, sensuale, si cala nella storia di un tempo amaro, dove vivere non è diritto di tutti.
Dall’amore, dunque, il dolore, la separazione, il resto della vita trascorso nell’assenza dell’altra.
Le note dell’Estate di Vivaldi irrompono sullo schermo col fragore delle onde di quel mare tra le rocce.
Sciamma sa come far avanzare le cose con tocchi leggeri e persuasivi.
Sa come non far parlare, riempire la scena di silenzi, raccontare storie del mito in chiave nuova.
“E se fosse stata Euridice a chiedere ad Orfeo di voltarsi?”
Saltano tutte le dotte esegesi, chi scrive non è l’uomo (o la donna), è il poeta (o la poetessa).
Nelle sale buie del castello l’unico punto di bianco, di calore stropicciato è quel letto dove Heloise e la pittrice si ameranno.
E la tela ricamata con alberi e fiori della piccola cameriera che diventerà una parte di loro, tre donne che il destino vuole a tutti i costi schiacciare perché sono donne, nient’altro, e la colpa è imperdonabile.
E non solo tre secoli fa, ci fa capire il coro di donne nel bosco, “Fugere non possum”, intorno al fuoco. Un tempo le chiamavano streghe e quello era un sabba.
Il fuoco, dunque, l’altro tema centrale.
Appare più volte, nel camino davanti al quale la pittrice si asciuga dopo il tuffo in mare. Nuda, fuma la sua pipetta in silenzio.
Poi nel vecchio ritratto in fiamme, sfigurato, dell’altra donna del castello, trovata fra gli scogli.
Si era buttata? Probabile.
Quindi sull’orlo dell’abito di Heloise, ed è il ritratto della giovane in fiamme.
Tra metafora e realtà il confine è impercettibile.
E’ una storia disseminata di minacce di morte, nel mare, per aborto, per fuoco.Ma non muore nessuno, la morte vera è quella che non si vede, cova dentro, consuma.
E’ la morte di Heloise, a teatro, sola in quel palco, che ascolta i muggiti del mare di un’orchestra invisibile.
Un giorno, anni prima, quel ritratto era riuscito a sorridere.
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