Regia di Joe Wright vedi scheda film
Il regista alla porta.
Uscito poco dopo “the Wolf Hour”, l’opera seconda di Alistair Banks Griffin [che a sua volta suggeva in parte alle radici del “the Nesting” di Armand Weston, e con Naomi Watts in un ruolo sinonimico (in quanto co-sintomatico: agorafobia) a quello qui interpretato con una notevolissima immedesimazione ammirevole da Amy Adams], e muovendosi sulla falsariga di un Tornatore o di un Ozpetek, “the Woman in the Window”, ad oggi - col gradevolmente caruccio “Hanna” e, soprattutto, col “Black Mirror: Nosedive” di Charlie Brooker e Bryce Dallas Howard - si presenta come il miglior film di Joe Wright...
- un banale illustratore per Lev Tolstoj (Anna Karenina), Jane Austen (Orgoglio e Pregiudizio) ed Ian McEwan (il bellissimo e struggente - in riferimento al romanzo - “Espiazione”), e autore anche del sufficientemente bruttino “the Soloist”, di una discreta rivisitazione di J. M. Barrie, “Pan”, e della messa in scena di una delle mimetiche performance della vita di Gary Oldman per la “Darkest Hour” churchilliana -,
...e ciò è tutto dire: chi trova in questo robusto e solido (poco insolito) b-movie (sceneggiato dal lodevole Tracy Letts di “Bug” e “Killer Joe” per William Friedkin, oltre che, in seconda istanza, di “August: Osage County”, tutti quanti tratti da suoi precedenti omonimi lavori teatrali, basandosi su un - dice - best-seller di A.J.Finn, alias di tal Daniel "Bugiardo Bugiardo" Mallory), che in alcuni punti, causa la regìa, si dimostra irritante e banale, ma tutto sommato è onesto e coerente nella sua esplicita e scoperta estremizzazione parossistica dell’intreccio (leggasi: moventi primari), chissà quale lavoro teorico sull’immagine [da Hitchock - e da questo PdV “Rear Window” è, miriadi di letterali citazioni metacinematografiche a parte (il Dalì di “SpellBound”), solo l’apice - in giù: e, per contro, le “accuse” di scopiazzatura sono parimenti altrettanto e anzi ancor più idiote e ridicole] è preda...
- a prescindere dal fatto che molte delle invenzioni visive sono (probabilmente) da imputarsi al merito del direttore della fotografia Bruno Delbonnel (Jean-Pierre Jeunet, Alexandr Sokurov, Tim Burton, Joel e Ethan Coen), ultima e non ultima la fantastica caduta “interrotta” finale, con la macchina da presa che, invece di seguire lo schianto gravitico dall’alto verso il basso, sfondando verticalmente il pavimento del tetto come invece aveva già più volte fatto in precedenza muovendosi orizzontalmente sul set del palazzo (allestito da Kevin Thompson: “Kids”, “the Yards”,“Stranger Than Fiction”, “Michael Clayton”, “Funny Games U.S.”, “Young Adult”, “BirdMan”, “Okja”, “Ad Astra”) come se non ci fossero pareti, ne imita prospetticamente la traiettoria d’impatto ridisegnandola con un arco parabolico a novanta gradi dallo sfondo verso il primo piano, allontanandosene e finendo sul volto di [omissis] -
...degli stessi abbagli critici che hanno coinvolto “the Invisible Man” di Leigh Whannell con un’eccezionale Elisabeth Moss (ma lo si sa, Elisabeth Moss è come “Vittorio Gassman Legge la Lista della Spesa”, quella roba lì: ‘n do’ la metti, sta, ch’è ‘na meraviglia), il cui ruolo qui è ricoperto, come già detto, magnificamente da Amy Adams.
A parassitare il posto lasciato vacante da una sempre superba e straniante Julianne Moore subentra una irriconoscibile - e sempre disturbante - Jennifer Jason Leigh.
Gary Oldman sembra il Norman Stansfield di “Léon” ritiratosi in prepensionamento, ma non certo dalla psicopatia, e che assai ancor ne ha è chiaro dal fatto che ne consegna un sacco e una sporta al figlio, ben interpretato – mi ripeto, ma l’intero cast, raggruppato da Elen Chenoweth, è di rimarcabile bravura – da Fred Hechinger al suo, se non erro, primo ruolo d’importante rilievo, che principia il film come fossimo in “Funny Games” e mette a dura prova le doti da psicologa della protagonista, un po’ appannate.
Chiudono il cast Wyatt Russell, Brian Tyree Henry (il recente “Godzilla vs. Kong”, ma soprattutto Alfred 'Paper Boi' Miles in “Atlanta”), Jeanine Serralles, Anthony Mackie e lo stesso Tracy Letts nel ruolo dello psichiatra della psicologa.
(Alla finestra.)
Montaggio di Valerio Bonelli e ottime musiche di Danny Elfman.
Girato nell’estate-autunno del 2018, doveva uscire un anno dopo, ma in seguito ad alcuni test screening “fallimentari” (mi piacerebbe conoscere gli spettatori di queste proiezioni di prova, e sodomizzarli, anche senza conoscerli a fondo) Scott Rudin & C. hanno chiamato Tony “Ghe Pensi Mi” Gilroy per riscrivere e rigirare alcune scene di raccordo esplicative (si riconoscono, ad occhio ed orecchio, i reshoot: impressionante per bruttezza - e ci scommetto una metaforica palla ch’è, a naso, una di esse - quella che cade e scocca all’ora esatta di metraggio, con Amy Adams che recita - male! - in attesa dell’epifania mentre la MdP le si avvicina confluendo nel flashback: se poi è parto di Joe Wright, poco cambia nell’economia finale del giudizio...) e poi, a causa della pandemia di CoViD-19, alla fine è stato distribuito solo quasi tre anni dopo da Netflix che ne ha acquistato i diritti dalla ex-Fox in procinto di essere incorporata/divorata/de-foxizzata dalla Disney.
Gürbüz Dogan Eksioglu per “the New Yorker” (24 maggio 2021)
* * * (¼) - 6.25
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