Regia di Kevin Kölsch, Dennis Widmyer vedi scheda film
Uno dei più brutti remake di sempre. Diretto da due promesse (Starry eyes) che abbandonano qui il loro talento, in buona parte azzerato dal limitante mondo delle majors americane. Quando si dice che la pubblicità è l'anima del commercio: prova ne è il risultato al box office di Pet sematary edizione 2019, lanciato da un buon battage promozionale.
Il dott. Louis (Jason Clarke), al seguito di moglie e due figli piccoli, abbandona la città per trasferirsi in un paese di provincia. Un posto apparentemente tranquillo, se non fosse per una pericolosa strada in prossimità della nuova abitazione trafficata da camion, e soprattutto per un terreno in grado di riportare dall'aldilà, una volta seppelliti, gli animali morti. È l'anziano Jud (John Lithgow), trovato il gatto domestico straziato da un'auto, a consigliare a Louis di sotterrare l'animale in quel "magico" luogo. L'animale ritorna in vita per davvero, però non è più affettuoso, al contrario manifesta una pericolosa aggressività, tanto che Louis decide di abbandonarlo lontano da casa. Ma le cose sono destinate a peggiorare, quando -proprio il giorno del suo compleanno- la piccola Ellie (Jeté Laurence) trova la morte investita da un camion.
"C'è un posto in mezzo ai boschi, oltre il cimitero degli animali, che riporta chi se ne è andato." (Dott. Louis)
Dopo l'esaltante Starry eyes, la coppia di registi composta da Kevin Kölsch e Dennis Widmyer si lascia coinvolgere in questa mega produzione Paramount (una cosetta da 21.000.000 di dollari!), sceneggiata malissimo da Matt Grindberg e Jeff Buhler. Due autori già responsabili di alcuni script che ben rendono l'idea del loro lavoro. L'uno (Grindberg) vanta in curriculum cosaccie tipo 1408 e Mercy; l'altro (Buhler) schifezze tipo The prodigy o Insanitarium. Cosa non si fa per denaro: la moneta sonante in questo caso spinge Kölsch e Widmyer a rinnegare il genere e -soprattutto- il passato, firmando la regia di un remake che, definire inutile, è poca cosa. Siamo di fronte al classico prodotto mainstream che punta ad un'ampia platea di pubblico adolescenziale, finendo per convertire un mito (il film della Lambert) in una favola dai risvolti involontariamente comici (tutta la mezz'ora finale, trasformata in parodia grazie alla pessima scelta di puntare sulla piccola attrice Jeté Laurence).
Nonostante l'imponente produzione, la fotografia è davvero anonima (molto mal illuminate le scene notturne), non meno della colonna sonora. Gli effetti speciali sono risicati, e gli altri attori (Lithgow in primis) anche se ce la mettono tutta, sembrano essere consapevoli di recitare sul set di un horror patinato, edulcorato, inappropriatamente addolcito. Un (non) horror che è persino in grado di congelare i sentimenti primari in campo (gli affetti tra padre e figlia), per non dire delle profonde implicazioni (qui nemmeno sfiorate) che il soggetto poteva invece sollecitare. Dopo avere stoicamente subito la visione (di ben 100 interminabili minuti), sorgono persino forti dubbi sulla bontà del testo originale di Stephen King. Niente male per un horror, riuscire ad allontanarsi così le simpatie degli appassionati del genere...
Qualcuno ha capito perchè qui si tira in ballo anche il mito del Wendigo? Non c'entra proprio nulla con i terreni K del buon Zeder (probabile fonte di ispirazione dello stesso King): questo sì un film horror, diretto da Pupi Avati con una manciata delle vecchie lire ma dall'esito artistico infinitamente superiore rispetto a questo, incredibilmente premiato (al box office), non sense cinematografico.
"Un analfabeta morto un’ora fa sa più cose sull’universo di tutti gli scienziati messi insieme." (Corneliu Vadim Tudor)
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