Regia di Caroline Link vedi scheda film
L'autrice della storia ha dedicato la sua vita a scrivere e illustrare libri per l'infanzia. La bambina protagonista è lei. Ed il racconto è vivido come le pagine a colori delle sue incantevoli fiabe.
A volte capita. È un fenomeno raro, ma evidentemente non impossibile. Capita che un film riesca ad attivare anche i sensi non direttamente interessati dalle presenze che si muovono sullo schermo, dalle voci dei personaggi, dai suoni di sottofondo, dal commento musicale. Capita che, al momento giusto, di un fiore si riesca a respirare il profumo, di una fetta di dolce si possa provare il sapore, e che la durezza della vita sia una ruvida sensazione tattile, che fa raggrinzire le dita. La narrazione autobiografica di Judith Kerr, alias Anna Kemper, ha, del racconto infantile, l’immediatezza di chi è a diretto contato con le cose piccole e semplici del mondo. Anche la cattiveria, inquadrata dal basso, è il variopinto e odoroso humus delle favole, cedevole e muschioso come il disgusto che, da bambini, è sempre e comunque un modo per scherzare, per giocare a fare la guerra contro tutti. Le tormentate vicende di una ragazzina tedesca, figlia minore di una famiglia di intellettuali di origine ebraica, cominciano verso la fine del 1933, con l’ascesa al potere di Adolf Hitler. Quella data segna l’inizio di un difficile percorso di fuga ed esilio, terminato con l’approdo a Londra, che diventerà la seconda patria della futura scrittrice. Ma questo suo racconto non ha nulla di adulto. Come il titolo rivela, ha solo i tratti di un incubo che attraversa il paese dei balocchi, un nuvolone che ne mette in ombra le forme e i colori, per rubare, d’un colpo, le immagini che fanno sorridere, proponendo il volto ingenuo e allegro della bellezza. Dopo quel passaggio funesto, tutto va reinterpretato. Non subentra, come avverrebbe nell’età matura, il silenzio stanco del nulla: ciò che è stato non svanisce, ma al contrario, esplode, nella veste di uno strano fuoco d’artificio, che appena scalfisce il buio, e per il resto produce un misterioso e persistente rumore. La fantasia si riduce ad una scintilla costretta a spalmarsi, fioca e uniforme, lungo un’attesa interminabile, che riempie di croci le caselle di un calendario, e traccia, sul foglio, disegni a matita di immaginarie catastrofi. Si srotola così, come una lenta filastrocca, anche lo strascico nostalgico di un coniglietto rosa, lasciato a casa con il bagaglio che, la mattina della partenza, non ha trovato posto nella macchina. L’abbandono, la separazione sono una nota prolungata che non molla, che rimane attaccata come un elastico infinito al luogo tanto amato, continuando ad avvolgere i giorni trascorsi nella lontananza, nella sofferenza, nell’incertezza e nell’estraneità. Un nastro che ci si può divertire a rigirare tra le dita, quando la noia si fa largo. Servirà per mantenere attenta e lucida la testa, affinché continui a guardare la realtà con i soliti occhi sgranati dalla curiosità, senza trascurare alcun dettaglio. Plastici, netti e vividissimi sono i contorni di questa trasposizione letteraria, supportata da una sceneggiatura fresca ed estrosa, da una regia tanto sensibile quanto severa, e da una recitazione trasudante di passione. La visione è di una limpidità sconcertante, che ci riporta davvero ai nostri sogni degli anni più teneri e innocenti, quando tutto era meravigliosamente deformato dallo stupore di vederlo per la prima volta. Un film a tutto tondo può dunque ancora emozionarci, penetrarci l’anima con le sue pronunciate morbidezze, anziché ferirci con le maliziose sottigliezze che noi “grandi”, spesso ingiustamente, consideriamo l’unico, vero marchio della genialità.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta