Regia di Billy 'Bloody Bill' Pon vedi scheda film
È solo un cortometraggio, anche prevedibile nel suo sviluppo, ma ha una carica orrorifica che si allontana sia dall’horror main stream edulcorato e sedato sia dalle esagerazioni linguistiche autoriali di un certo cinema horror. Bloody Billy, insieme a Damien Leone, si è rivelato un ottimo regista horror, non solo per saper dare forma al terrore con un buon linguaggio cinematografico, ma anche per aver creato vere e proprie maschere del terrore, seppur ancora poche. Esordisce nel corto proprio con Doll Boy e dà vita a una figura dell’orrore davvero inquietante e riuscita: un ragazzotto ciccione in bermuda e bretelle con una maschera da bambola basica, ma dai tratti inquietanti, che si aggira in un magazzino buio e abbandonato con un grosso martello da muratore. Non proferisce parola, la sua specialità è spappolare teste ed è calmo e zelante nel suo lavoro.
Il body count è elementare e prevedibile, ma ciò che colpisce è la capacità del regista di ridare nerbo al genere attraverso i suoi elementi più importanti: la maschera, la figura, la mostruosità horror, l’ambiente e l’estetica splatter con una buona dose di gore. Calcherà di più la mano nel successivo Circus of Dead (2014) di cui Doll Boy è, a conti fatti, un prequel, ma già qui, in poco più di 30’, Billy Pon sa utilizzare gli elementi del genere senza edulcorarli e quindi sedarli, senza ripulire l’immagine, anzi, sporcandola con una fotografia oscura, con molti bui e poche luci, utilizzando una set decoration in linea con l’idea più basica ed efficace di horror, senza involarsi in rifiniture horror borghesi, dove conta di più l’indagine intellettualoide, psicologica od esistenziale, come in due titoli coevi inspiegabilmente applauditi dalla critica come It Follows (David Robert Mitchell, 2014)) e The Babadook (Jennifer Kent, 2014), entrambi di piacevole visione, ma che dequalificano il genere per potenziare il respiro autoriale.
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