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Dobermann

Regia di Jan Kounen vedi scheda film

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La recensione su Dobermann

di fixer
4 stelle

Va bene, prendetemi pure a calci, “crachez sur moi ou sur ma tombe”, condannatemi all’oblio, alla “DAMNATIO MEMORIAE”, fate di me quello che vorrete, ma non riuscirete a convincermi che questo film che non sia una ciofeca, una brodaglia indigesta.

L’unica scena, a mio avviso, in qualche modo digeribile, è quella in cui uno dei personaggi “schizzati” della banda di Dobermann, dopo aver defecato in mezzo alla strada, prende un paio di pagine della rivista CAHIERS DE CINEMA e ci si pulisce il sedere.

Immagine illuminante: pulendosi il culo con quella rivista, Kounen, il regista, prende a calci la visione e l’ideologia che sta dietro a quella rivista e anche la supponenza e l’arroganza da aristocrazia saccente della cultura tout court.

Il cinema, per Kounen, non è solo quello con la C maiuscola che abbina cultura e settima arte, ma è invenzione, fantasia, splatterismo, carognismo estremo, fumettismo per adulti (!)(?) che va a braccetto con la più pura cultura pulp.

In effetti, se proprio dovessi pensare a un parente nobile (?), dovrei per forza pensare a Quentin Tarantino, e cioè uno dei registi più discussi e controversi dell’intero panorama cinematografico attuale. Ma Quentin, lasciatemelo dire, ha una marcia in più. In Tarantino percepisci un’esplosività latente, un’imprevedibilità clamorosa che, quando emerge, rompe perfino la crosta della verità storica, della razionalità, della logica comune. E questo non è per definizione un male in sé. In più c’è una sapienza di regia che ti restituisce il piacere del puro vedere.

Oppure, dividiamo il cinema in due. Facciamone due mondi separati, dei quali uno è rappresentato dalla pancia e l’altro dalla testa (e un po’ di cuore).

L’istinto e la ragione. Può l’istinto, la ragione di chi non ragiona, l’urlo al posto della parola, il pugno invece della mano operante, avere diritto di cittadinanza a pari dignità?  Il mondo raffigurato da Kounen trova parecchi adepti entusiasti nei teen-agers, abituati alla cultura fumettistica, ma non si può etichettare in modo così semplicistico un’intera generazione. Ci sono teen- agers e teen-agers. Come sempre. Diciamo che c’è una generazione alternativa che vive e vede la vita come rifiuto di un mondo che la respinge e allora risponde con le armi ingenue che essa possiede: la ribellione per immagine, che offre ciò che i benpensanti rifiutano: violenza allo stato puro, cattivo gusto, turpiloquio, escrementi, provocazione, valori disvalorati.

E’ da qui che parte Kounen, ed è da qui che bisogna partire per cercare di capire.

Ora, non è detto che quando si cerca di capire, si finisca poi sempre per apprezzare.

Abituati da sempre ad abbeverarci alle “nourritures terrestres” fatte di buon gusto, buonismo, auto-controllo, studio, sacrificio, fatica, pazienza e rispetto, è oltremodo arduo spogliarci delle nostre vesti ed indossare disinvoltamente falsi quelle dell’altra parte del mondo, quel “dark side of the Moon” che perennemente ci sfugge, che prudentemente (mai termine fu più illuminante) evitiamo, che aprioristicamente condanniamo, salvo poi ipocritamente fingere di ignorare, resi inquieti dal fatto che parte di quel mondo ci appartiene e vive dentro di noi.

Ma anche così, pur se non riusciamo a rendercelo amico, cerchiamo di interpretarlo, di capirlo. La nostra critica quindi, più che tale, è solo uno sguardo dal ponte dall’altra parte del mondo, quella che con i Cahiers è cresciuta e (forse) crogiolata.

Non siamo migliori rispetto a nessuno, ne sono convinto, soprattutto perché noi conosciamo il passato, magari solo perché lo abbiamo studiato. E questo ci insegna che il nostro sguardo ha bisogno di quel ponte per sentire, udire, ascoltare quello che succede là.

Ciò di cui forse c’è più bisogno è di un “mediatore” culturale o sociologico, che ci aiuti a “comprendere” e fare un po’ di autocritica su noi stessi e la nostra “civiltà”.

Per noi, per me, questo film è pura spazzatura, ma sotto lo strame maleodorante, si indovina un invito, pronunciato male, magari condito da un rutto, ad aprire un po’ di più il nostro sguardo.

 

 

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