Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Con la sua nuova pellicola Marco Bellocchio torna a raccontare, dopo Buongiorno, Notte (2003) e Vincere (2009), un nuova pagina tra le più oscure e dolenti della storia più recente italiana attraverso una messa in scena alla sua maniera cronachistica e documentaristica e allo stesso tempo romantica e spietata, fedele alla storia (per quanto possibile) e al contempo immaginifica.
Sceneggiato dallo stesso regista in collaborazione con Francesco Piccolo, Francesco la Licata e Ludovica Rampoldi, Il Traditore abbina il racconto storico con un registro più umano e intimistico che da un lato espone una vicenda emblematica con toni forti e brutali e, dall’altra, costruisce uno psicodramma nazionale attraverso il racconto di uno dei suoi protagonisti tra piste marcate e altre oniriche o soltanto suggerite.
Come i migliori film di Mafia insegnano a partire proprio da Il Padrino di Coppola (di cui però Il Traditore ne è quasi antitetico) anche il film di Bellocchio inizia con un festa, in questo caso di Santa Rosalia, patrona di Palermo, ma comunque pretesto per una riunione di diverse famiglie mafiose, in un ambiente barocco e decadente, per stringere un effimero accordo di pace, riunione che si conclude con la classica foto di gruppo dei partecipanti, a loro modo tutti protagonisti di quanto verrà raccontato in seguito, e su cui spicca tra i tanti, tutti in abito scuro, l’unico vestito invece di bianco.
Il Soldato semplice tale soltanto di nome.
Il Boss dei due mondi.
Tommaso Buscetta.
In questa festa, splendidamente raccontata, vengono gettati i semi di tutto quanto verrà dopo come anche le motivazioni che porteranno Buscetta a “tradire” Cosa Nostra.
La droga, fonte di enorme guadagno per le famiglie ma la cui avidità, ormai fuori controllo soprattutto nel Clan dei Corleonesi di Totò Riina, ne corrompono gli “ideali” di sempre, invece ancora fondamentali (veri o presunti che siano) per l’uomo d’onore Don Masino, il peccato originale di una Nuova Mafia la cui colpa è di averla introdotto anche ai membri all’interno della famiglia (vedi il figlio di Buscetta) e quindi di non proteggerla ma, anzi, coinvolgendola, come possibili bersagli, anche nella lotta per il potere.
Aspetto lo ha portato a lasciare la Sicilia, allontanandosi da Cosa Nostra, e a riparare in Brasile con la sua nuova famiglia.
La parzialità della prospettiva che Bellocchio adotta è tutta nel personaggio di Buscetta che diventa testimone unico e onisciente di un mondo mafioso che probabilmente non è mai esistito se non nella sua testa.
Le ragioni di Buscetta, che sosteneva di non essere un traditore in quanto erano i Corleonesi ad aver invece tradito lo “spirito” di Cosa Nostra, sono usate dagli autori per rappresentare un mondo mafioso che rivela la verità non nelle sue parole ma nella rappresentazione che viene data dei suoi nemici in una visione più prosaica e ben poca epica della Mafia, in diretto contrasto con quella romantica, quasi cinematografica, di Buscetta (che si vestiva e si atteggiava come il personaggio di un film), per lo più formato invece da contadini analfabeti, arrivisti e bugiardi che si fanno dispetti e ripicche tra loro, anche usando lo Stato come strumento per le loro vendette.
Ridicoli e grotteschi, uomini da poco con argomentazioni infantili e una sguaiata forma di autostima per quanto invece vigliacchi e bugiardi.
Buscetta invece viene ritratto diversamente.
Con un rispetto che si deve alle figure grandi e potenti ma non in quanto criminale ma come personaggio (anche storicamente) sfuggente, contradittorio e complesso a più livelli e quindi interessantissimo a prescindere dal proprio giudizio morale, assurto a “eroe” (con tutte le virgolette del caso) non perché realmente pentito ma perché contrario al nuovo assetto organizzativo di Cosa nostra con a capo i Corleonesi.
E (ovviamente) per vendetta.
Ma quello che interessa a Bellocchio non è soltanto il personaggio ma anche (soprattutto?) lo sfondo in cui si muove, un affresco atavico, crepuscolare e quasi scomposto quando anche (a volte) inattendibile, temporalmente frammentato e che più che a capire lascia soprattutto intuire.
Un film cupo e decisamente bellocchiano per la suggestione del suo testo da tragedia greca, ricco di soluzioni e di generi contrapposti (cinema di Mafia, Cinema civile, cinema d’autore) ma quasi sempre avvolto nel grigiore burocratico del potere e/o nell’oscurità ambigua di vicende e di un protagonista pericoloso, reso ottimamente grazie alla fotografia di Vladan Radovic.
Uno splendido Pierfrancesco Favino ci restituisce tutta la complessità e le ambiguità del personaggio Buscetta, servendosi anche di un ottimo cast di comprimari (Luigi LoCascio, Fausto Russo Alesi, Maria Fernanda Candido, Fabrizio Ferracane) per trattenere la pellicola nei giusti binari di autenticità e aderenza alla visione del suo autore.
Un Buscetta che (forse) pur conoscendo ogni segreto di Cosa Nostra non la comprendeva davvero, ammaliato (forse) dalla fascinazione dei racconti e del cinema che ne celebravano romanticamente le gesta e a cui (forse) finisce per crederci davvero, in una forma di autoindulgenza per chi è e per quello che ha fatto, e la cui sua vera natura comprende (accetta?) soltanto alla fine (forse), quando viene rivelato al pubblico l’epilogo della storia raccontata al Giudice Falcone e rimasta in sospeso per quasi tutta la pellicola.
Ovvero che, esattamente come gli altri, Buscetta é semplicemente un assassino.
VOTO: 7,5
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