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Il traditore

Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film

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La recensione su Il traditore

di Peppe Comune
8 stelle

All’inizio degli anni ottanta, lo sviluppo prepotente del traffico di eroina rende tesi i rapporti tra le vecchie famiglie di Cosa Nostra e i Corleonesi. Il primo ad avvertire che non ci sarebbe stato scampo allo scoppio di una faida mafiosa è Tommaso Buscetta (Pierfrancesco Favino), che si allontana dalla Sicilia per fuggire in Brasile meritandosi per questo il titolo di “Boss dei due mondi”. Ma i corleonesi non si dimenticano dell’affronto, e iniziano ad uccidergli ad uno ad uno tutti i familiari, cominciando dai due figli e dal fratello rimasti in Sicilia. Catturato dalla polizia Brasiliana, viene estradato in Italia dopo essere stato sottoposto a dolorose torture. Lontano dall’amata moglie brasiliana (Maria Fernanda Candido), braccato dai sensi di colpa per essere stato la causa della morte di molti esponenti della sua famiglia e dopo aver tentato il suicidio con la stricnina, Tommaso Buscetta decide che l’unico modo per vendicarsi dei “nuovi” capi della mafia è quello di diventare un collaboratore di giustizia. Pur rifiutandosi di definirsi un pentito e senza mai rinnegare la sua fedeltà ai valori fondanti di Cosa Nostra, le sue rivelazioni al giudice Giovanni Falcone (Fausto Russo Alesi) risulteranno essere di fondamentale importanza per la lotta alla mafia. Dopo di lui decide di collaborare con la giustizia anche Salvatore Contorno (Luigi Lo Cascio).  Ha inizio il fenomeno del “pentitismo”, che darà modo agli organi di polizia di conoscere il sistema mafioso nelle sue multiple e ancora sconosciute sfaccettature. Oltre che ad infliggere duri colpi all’organizzazione criminale e a svelare intrighi compromettenti tra il potere mafioso e quello politico. Gli incontri tra Tommaso Buscetta e Giovanni Falcone culminano nel 1986 con l’inizio del maxiprocesso nell’aula bunker di Palermo. Buscetta è il testimone chiave, e durante il dibattimento avrà modo di confrontarsi con Pippo Calò (Fabrizio Ferracane) e Totò Riina (Nicola Calì), il capo dei capi. Anche il processo a Giulio Andreotti (Pippo Di Marca) sarà istituito sulla base delle sue testimonianze. Tommaso Buscetta vive gli ultimi anni sotto copertura negli Stati Uniti, dove muore nel 2000. Di morte naturale e non per mano della vendetta dei “vecchi” amici mafiosi.

 

Pierfrancesco Favino

Il traditore (2019): Pierfrancesco Favino

 

“Il traditore” di Marco Bellocchio è un biopic che segue una strada poco canonica, a suo modo atipico, perché, pur seguendo delle direttive date, non arriva mai a darsi dei connotati puramente descrittivi o una matrice addirittura didascalica. Tende, invece, a fare delle verità oggettive che vengono rappresentate gli elementi emblematici che possono servire, non solo a leggere in filigrana spaccati importanti della storia d’Italia, ma anche ad analizzare l’uomo in quanto tale : quando è solo di fronte ai suoi fantasmi interiori ed è costretto a confrontarsi con le tragiche conseguenze scaturite dalle sue scelte. “Noi dobbiamo decidere solo una cosa : chi deve morire per primo, io o lei”. Dice emblematicamente Tommaso Buscetta al giudice Giovanni Falcone, come per sottolineare come la morte incomba sulle loro vite in una maniera ineluttabile, solo con modalità e tempistiche diverse. Gli elementi di fiction si intrecciano dunque con la cronaca giudiziaria, in un modo che l’adesione fedele ai resoconti processuali non si disperda nell’impianto cinematografico voluto da Marco Bellocchio. Ma si evita anche che un resoconto asettico sul “fenomeno” Buscetta arrivi a spogliare il film della dovuta carica emotiva esercitata dallo sguardo partecipato dell’autore. A mio avviso, Marco Bellocchio era interessato, né a dare troppa centralità al ruolo del pentito nell’ottica della lotta alla mafia, ne ad insistere troppo sul carattere politico del milieu criminale, ma ad usare entrambi gli elementi per far emergere la figura di Tommaso Buscetta in tutta la sua sfaccettata enigmaticità. Una figura affascinante perché complessa e complessa perché intrattiene una consapevole guerra contro quel potere mafioso che già sa non gli darà mai scampo, sfidando tutto e tutti, la sua coscienza morale, che rimane fedele a Cosa Nostra nonostante tutto, e le voci dei suoi familiari, che lo malediranno per l'eternità. Lui insiste a non volersi definire un pentito, intende collaborare con la giustizia, non perché vuole disconoscere il suo ruolo all’interno del sistema mafioso, ma perché ritiene che la “nuova mafia” abbia radicalmente stravolto i suoi connotati genetici. Per Buscetta, sono stati i Corleonesi a tradire i valori originari della mafia, e l’unica possibilità che ha lui di sopravvivere, non sta nel rinnegare la sacralità della sua affiliazione, ma nel ridiscuterla in relazione alla presenza di capi la cui autorità lui non intende affatto riconoscere. Infatti, come emerge dalle relazioni giudiziarie relative a Tommaso Buscetta, lui “non avrebbe detto tutte le cose che sapeva degli affari mafiosi, ma tutto quello che avrebbe detto sarebbe stato vero”. Buscetta si trova al centro di importanti cambiamenti della natura di Cosa Nostra, lui incarna un sistema di valori che ha ceduto progressivamente il passo a nuove e più violente modalità d’azione, sia nel risolvere i “fastidi” interni che nell’ eliminare i pericoli provenienti dal mondo esterno. Lui non vuole o non sa adeguarsi, e nella sconfitta nella guerra interna alla mafia, lui intende assumere i panni dell’ultimo paladino rimasto della "vechia mafia", un’organizzazione criminale che aveva un suo punto forte nel rispetto incondizionato di un preciso “codice morale”. Una posizione in fondo egoista, perché questo è l’unico modo per nobilitare quell’idea di Cosa Nostra che vuole tenacemente preservare. Da qui la complessità affascinante del personaggio resa ottimamente dal film : Tommaso Buscetta tradisce chiunque per non tradire se stesso, collabora fattivamente con la giustizia ma dicendo solo le cose che gli consentiranno di vincere la sua guerra di sopravvivenza.

Marco Bellocchio non può prescindere mai totalmente dal suo sodalizio formativo con lo psicanalista Massimo Fagioli, a fare degli slanci onirici dei suoi personaggi gli elementi che intervengono a deviare lo sviluppo narrativo dal suo percorso “ostinatamente” lineare. Anche se usati con molta più parsimonia rispetto ad altri film, comunque riescono a dare un tocco psicanalitico all’analisi del personaggio (si veda tutta la parte finale del film), a caratterizzarlo secondo criteri che non vogliono rimanere chiusi nei limiti spaziali imposti dalla narrazione.

Come già successo con “Buongiorno notte”, delle pagine importanti della storia d’Italia vengono proiettate verso l’esterno adottando il punto di vista dei “cattivi”, colti nei momenti di massima debolezza emotiva, quando i dubbi e le fragilità interiori azzerano la loro pericolosità sociale facendoli diventare come il più classico "vicino della porta accanto". Il pericolo è sempre quello di generare una sorta di immedesimazione emotiva col personaggio, di disinnescare la sua carica “malvagia”, di dare corso a quella rappresentazione della “banalità del male” che rischia di rendere indistinguibile il confine che lo distingue dall’esercizio normalizzato del bene. Ma il cinema offre la possibilità di marcare la differenza mettendo la tecnica al servizio delle idee e dei significati che si vogliono imprimere. E Marco Bellocchio questo lo fa molto bene, usando sempre la macchina da presa, o per marcare dei distinguo inoppugnabili, o per mettere chiunque venga catturato allo stesso istante dall’inquadratura in una stessa posizione morale. Si prendono gli incontri tra Tommaso Buscetta e Giovanni Falcone. Nella stanza dove discutono c’è sempre una scrivania tra i due, che e come se rappresentasse una sorta di territorio neutro entro il quale devono cercare di far incontrare i rispettivi interessi. Poi conferisce coerenza all’ampio utilizzo del campo contro campo, che serve per marcare la differenza profonda tra ciò che rappresenta in quella stanza Giovanni Falcone e chi è Tommaso Buscetta, tra chi lotta contro un mostro tentacolare rischiando ogni minuto di morire, e chi fa il collaboratore di giustizia per cercare di salvare ciò che è rimasto della sua esistenza di mafioso. Esattamente all’opposto fa nelle scene in aula per il maxiprocesso, specificatamente, durante i confronti di Buscetta con Pippo Calò e Totò Riina. I campi medi abbondano, per catturare simultaneamente gli imputati all’interno dell’inquadratura, per accrescere la sensazione che si è tutti sullo stesso piano, indipendentemente dal fatto che “don Masino” si stia rendendo utile nell’opera di lotta e di conoscenza del fenomeno mafioso. L’impianto teatrale poi, con i campi fissi che alternano i volti degli imputati posti di fronte alla Corte con quelli degli altri mafiosi che si trovano nelle sbarre alle loro spalle, che sbraitano improperi di ogni tipo contro Tommaso Buscetta, sancisce, tanto l’importanza storica del maxiprocesso istituito nell’aula bunker di Palermo, quanto il solenne atto d’accusa rivolto contro i capi di Cosa Nostra.

“Il traditore” è un ottimo film, diretto con mano sicura da un “vecchio” maestro come Marco Bellocchio, attento a rimanere fedele ai fatti storici pur evitando di conferire un carattere documentario al suo film (sceneggiato insieme a Francesco Piccolo, Ludovica Rampoldi e Valia Santella). Ottima la prova d’attore di Pierfrancesco Favino, bravo ad aderire al carattere "fintamente" tetragono di Tommaso Buscetta, a farlo oscillare tra l’uomo sicuro delle sue azioni e quello corroso dai sensi di colpa. Una menzione speciale la merita Luigi Lo Cascio, che svetta con la sua tempra sicula e la sua parlata stizzita.    

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