Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Un gran bel film? Forse. Un capolavoro? Macché. Uno straordinario Favino? YES!
Ebbene, siete pronti per la nuova kermesse veneziana e festivaliera? Poiché, come i ben informati sanno, in extremis, no, all’ultimo minuto, Guadagnino, per ragioni diramateci e assai note, è stato sostituito con Edoardo De Angelis che, all’80.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, presenterà, ovviamente, in world premiere, cioè anteprima mondiale, il suo opus intitolato Comandante con l’oramai onnipresente ma indiscutibilmente eccellente Pierfrancesco Favino. Forse il miglior attore italiano in circolazione, attualmente. Specializzatosi, infatti, vertiginosamente in performance via via in crescendo esponenzialmente perennemente, lavorando, sempre meglio, con registi d’alto profilo, insindacabilmente, Favino è, checché ne dicano i suoi odiatori, ahinoi, questi sì, tremendi e deficienti, un attore che, apportando, chirurgicamente e pian piano, migliorie significative al suo stile recitativo, soventemente ma soprattutto inizialmente con la sordina e con una voce “così così”, malgrado ne L’ultima notte di amore qua e là tentenni, nella “dizione” adattata forzatamente nella calabrese cadenza, specialmente, in tal Il detrattore, eh eh, no, Il traditore, sfodera e sfoggia una prova mastodontica, brillando di fulgida luce propria, cementandosi, con esiti da applausi a scena aperta, come si suol dire e, diciamo, in gergo, con un personaggio difficile sotto ogni punto di vista, con molte ombre, ovverosia nientepopodimeno che Tommaso Buscetta, detto Masino.
Film del 2019 di Marco Bellocchio, cineasta che, naturalmente, non necessita d’ulteriori presentazioni superflue, reduce peraltro, assai recentemente, dall’imperfetto ma decisamente ammaliante, perturbante, in gran parte estasiante, Rapito. Pellicola da me recensita appena in sala uscì che, perlomeno nella prima ora e mezza, totalmente mi rapì, deludendomi soltanto, parzialmente, aggiungo e puntualizzo precisamente ivi, verso la fine, in quanto, a mio avviso, si smarrì troppo didascalicamente in digressioni prolisse e irrilevanti ai fini dell’intreccio da Bellocchio illustratoci. Recuperato ora, tramite Netflix Italia, per l’appunto su tale piattaforma per cui, alla faccia dei romantici, più che altro anacronistici fautori della visione esclusivamente sul grande schermo, pago regolarmente e mensilmente l’abbonamento, Il traditore è un signor film da disaminare finemente e per niente da snobbare facilmente. Se non l’avete mai visto e vole(s)te conoscerne la trama in molti dettagli, recatevi qui su Wikipedia ma, ugualmente, ne ricaverete informazioni approssimative e verrete a conoscenza d’alcuni spoiler sgraditi: https://it.wikipedia.org/wiki/Il_traditore_(film_2019).
Romantico in senso lato o prettamente letterale, romanza parecchio, certamente. Eppur, parimenti, affascina grandemente nella sua sottile amalgama fra il documentaristico e il neorealistico più bellocchiano. Poiché Bellocchio, al solito e ottimamente, permea la sua materia filmica di pathos raffinato, narrandoci i fatti “realmente avvenuti” attraverso i suoi immancabili topos a base d’incubi in piena notte e scene sia allucinanti che allucinatorie, improvvisamente inquietanti. Su tutte la raccapricciante e inaspettata scena, da pelle d’oca, dell’arrivo della prostituta bona e super mignotta in carcere col “fedele”, giammai veramente pentito Masino/ Buscetta/Favino che, fra le sbarre da poco ma ospitato in una camera confortevole, forse non propriamente in una suite d’albergo a 5 stelle, però allo stesso tempo corredata di buon televisore e “accessoriata” dignitosamente a misura d’uomo e non di mafioso moralmente sia onorevole che misero, dopo la telefonata registrata ma erotica con la moglie (la sexy Maria Fernanda Cândido, invero poco candida nel suo torbido character da caliente bastarda, la quale, sbattendosene di essere dai poliziotti ascoltata, si tocca totalmente ignuda e sudata, con la f... ga accaldata e, chissà, profumata), non resiste più all’astinenza della carne e il suo matrimonio presto profana, sì, lo manda a puttane, è il caso di dirlo, con la bagascia eccitata, no, succitata. E, indisturbato, barbaramente e burberamente le chiede imperiosamente di spogliarsi, scopandosela nel bel mezzo della prigione più stronza di Palermo.
Insomma, schizzandovi, no, scherzandovi sopra, appena dopo l’estradizione e l’incarcerazione, non vediamo la sua fottuta erezione (non siamo in Diavolo in corpo con annessa fellatio storica) ma assistiamo, comunque, a una serena, mostruosa trombata da “motherfucker” di “Cosa Nostra”.
Attenzione, dirimpetto a Giovanni Falcone, in una delle sue prime confessioni della sua istruttoria, Buscetta vi tiene a specificare che l’organizzazione criminale in questione si deve chiamare esattamente con la sua giustizia, no, giusta espressione. Giustappunto, Cosa Nostra, e non mafia.
Per dovere di cronaca giornalistica e/o mafiosa, sulla giustezza del termine esatto, sarebbe da domandare a Francis Ford Coppola con la sua “famiglia” de Il padrino, a Martin Scorsese di Quei bravi ragazzi e perfino a Luc Besson di The Family, altresì conosciuto, anzi, da noi distribuito col titolo Cose nostre - Malavita. Con un boss di nome Don Lucchese che non è lucano, non è basilisco, forse è siculo, eh eh, è semi-analfabeta ma legge La Repubblica (incredibile!), ah ah, e De Niro che si chiama improbabilmente Giovanni Manzoni (la colpa non è di Besson, attenutosi fedelmente al libro dello scrittore Alessandro de I promessi sposi, no, di Tonino di Pietro, no, di Benacquista) e, al cineclub, riguarda sé stesso nell’appena scrittovi, poc’anzi, Goodfellas.
Non è morbosità... la mia... ma la scopata con la zoccola, prima descrittavi, è una scena fra le più emblematiche e disturbanti dell’intera opera presa in anale, no, Analyze This, no, analisi. Che riassume al meglio lo spirito ambiguo di questo film porco, no, volutamente equivoco che rivela i panni sporchi delle merde e li smerda, sputtanandoli in toto. Contemporaneamente, accusando lo Stato “impunito” e magnaccia, anzi, costituito da magna magna. Poiché Bellocchio non magnifica Buscetta ma neppur lo condanna... Lo riduce quasi a santino e dunque lo santifica, lo perdona per le sue “marachelle?”. Buscetta di tutto se ne fotté, persino del maiale Totò Riina. Qui interpretato da Nicola Calì. Da non confondere con Pippo Calò/Fabrizio Ferracane. E ne pagò le conseguenze. Morendo da solo come un cane o per colpa d’un impietoso Cancro?
Mentre il suddetto Falcone è lo stesso attore che interpreta, anzi, poi avrebbe rivestito i panni del padre disperato di Edgardo Mortara in Rapito, alias Fausto Russo Alesi. Luigi Lo Cascio, invece, qui siculo d.o.c., memore de I cento passi, è Salvatore Contorno. Sopra, ho menzionato Terapia e pallottole. Lo Cascio/Contorno, dopo essere stato momentaneamente liberato, trova un lavoro da venditore d’auto costose a mo’ del Paul Vitti/De Niro di Analyze That, vale a dire Un boss sotto stress.
Giulio Andreotti è Pippo Di Marca. Parafrasando Paolo Bonacelli in Johnny Stecchino, per cui la più grande calamità vergognosa della Sicilia è o sarebbe la siccità, ah ah, no, lo stesso suo autore-attore Roberto Benigni, Di Marca non c’assomiglia pe’ niente! E sembra più una macchietta del Bagaglino à la Pippo Franco. Scritto dallo stesso Bellocchio, su soggetto originale, con suo figlio Pier Giorgio nel piccolo ruolo di Cesare, e l’incursione nel pre-finale di Bebo Storti as avvocato Franco Coppi, Il traditore è molto didascalico, si adagia su toni melodrammatici da fiction (essendo prodotto, non a caso giuridico-penalistico, no, in modo televisivo, da Rai Cinema), in alcuni momenti e attinge, cronachisticamente, processualmente metaforicamente, a programmi appartenenti pressappoco alla collocazione temporale delle varie vicende snocciolateci, come per esempio Un giorno in pretura. Vi è anche un cammeo della bella Miriam Previati.
Il traditore è prolisso, Favino è superlativo, ha tantissimi difetti, comprese alcune sequenze girate ingiustificatamente in digitale (Bellocchio non è Michael Mann di Nemico pubblico), fotografate però superbamente da Vladan Radovic, è stato musicato egregiamente da Nicola Piovani (La vita è bella, ah, sempre Benigni di mezzo, oh oh), andava scorciato e meno retoricamente filmato. Nel suo insieme fatto di andirivieni soprattutto emozionali, inchioda dal primo all’ultimo minuto, esagera sovente e carica eccessivamente d’enfasi ma, alla fin fine, sostanzialmente, è un film importante. Forse non memorabile ma giustamente angosciante.
di Stefano Falotico
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