Regia di Todd Phillips vedi scheda film
Gli arcinemici dei supereroi DC sono spesso più interessanti dei loro antagonisti positivi, sebbene proprio Joker risponda con efficacia alla complessità intrinseca del giustiziere mascherato, sopratutto nella accezione psicanalitica di Nolan col mascheramento funzionale al potenziamento del timore nell’avversario, oltre che necessario alla mistificazione dell’identità anagrafica dell’eroe.
Phillips imprime al personaggio di Joker un analogo sviluppo, narrandone le origini e spiegandone la matrice ossessiva e psicopatica del comportamento e, soprattutto, non slega la storia personale del giullare da quella del pipistrello, a cui è da sempre intimamente legata ma, anzi, ne sceneggia legami ancor più intimi. A differenza del pessimo film su Venom, proveniente dal mondo di Spiderman ma estrapolato dal contesto e reinizializzato a San Francisco con una origin story autonoma e in cui tutti gli attori sembravano fuori luogo per fissità e disinteresse nei confronti di un progetto meramente commerciale e alimentare, l’approccio di Phillips è volutamente autoriale, cinefilo senza volere essere derivativo, strutturato e poco post-moderno per com’è privo di derive ironiche, così come di inutili alleggerimenti comici.
Attento alla corretta definizione di un personaggio sgradevole, il regista ne fa il centro assoluto del film, il quale, in questo modo, diventa il riflesso del mondo personale del protagonista, immaginario quanto concreto, abitato da illusioni e da ossessioni, da sogni e come da fantasmi, popolato da chimere di celebrità e animato da un disperato bisogno d’affetto e d'affermazione. Miscelando abilmente Scorsese e Chaplin, con la brutalità dell’americano e la malinconia del britannico, il regista cita, con consapevolezza, Re per un notte insieme a Taxi Driver nel solo riuso critico di De Niro (finalmente in un ruolo dignitoso), trasformato in comico televisivo affermato, com’era nei sogni di Pupkin, e con l’eco della disfunzione erotica del reduce stressato che si trasforma in cieca violenza, mentre fa ripetere, sotto una scalinata degna dell’Esorcista, i passi di Ballando sotto la pioggia, riunendo la rilettura sadica del musical già proposta da Kubrick alle tinte piovose e autunnali dei noir urbani degli anni 70 in cui sembra svolgersi la vicenda di queste fioche luci di un varietà triste. Il Joker di Phoenix non è più l’artista del caos di Nolan ma una vittima della società, inconsapevole quanto intimamente crudele, che lo rende privo di giudizio e di coscienza, la perfetta incarnazione del sociopatico psicotico, per di più affetto da un incontrollabile riso che, ironicamente, si scatena nei momenti più inappropriati, quando l’emotività prende il sopravvento. Ed è questa peculiarità di residuo sociale disintegrato che viene amplificata dalla semplice ambientazione a cavallo tra 70 e 80, tra i dolenti reduci del Vietnam e i già prossimi parossismi edonistici dello yuppismo, nelle contraddizioni di una collettività furente e instabile che, pur nel suo aspetto vintage, non è troppo dissimile dalla nostra.
Ma l’impeto da storico del cinema di Phillips non sovrasta la necessità di rimanere originali. Adeguando regia e sceneggiatura al personaggio, per seguirne l’evoluzione da sfigato cronico verso l’icona nota e la piena scelta criminale, l’autore ne mostra la visione del mondo, soffocante e kafkiano, infantile e incoerente, illuso e disperato. Questo crudele racconto della giovinezza di un antieroe, pur aderendo alla fragilità psicolabile del protagonista, incarnato con devota partecipazione da Joachim Phoenix che tramuta il proprio corpo in larva sofferente per aderire visceralmente al personaggio, non disdegna di riallacciarsi alla novella del cavaliere oscuro ricalcando le immagini iniziali della trilogia di Nolan (e le tavole del fumetto originale), cambiandone però il segno. Perché, aderendo al punto di vista del Joker, i ricchi potenti di Gotham, incarnati da Thomas Wayne, prepotenti vanagloriosi (con immediate assonanze trumpiane) e discutibili anche nell’apparenza progressista delle intenzioni, assumono un’aura di inquietante perfidia non aliena dalla brutalità. Se Arthur Fleck si illude di essere fratello del giovane erede, alimentandosi delle illusioni malate della madre, il rapporto di familiarità forzata tra quelle due anime tormentate e la comune necessità di mascherarsi per nascondere un malessere esistenziale rafforza le similitudini tra i personaggi, entrambi disagiati sociali, egotistici misantropi vagamente misogini.
Inoltre, la vicenda di Bruce Wayne, in questa riscritta versione, deriva da quella del suo futuro nemico che, pertanto, getta le fondamenta del Batman a venire, ma fa del futuro eroe non la vittima di un semplice ladro di strada bensì di un esaltato emulo del tristo buffone stesso, assurto ad esempio di feroce ribellismo. Nel capitalismo sfrenato di una megalopoli corrosa dalla delinquenza e abitata da sacche di disagio e povertà, la maschera del Joker, massificata come il pizzetto di Guy Fawkes in V per Vendetta dai mezzi d’informazione, diventa un controverso strumento di protesta e di affermazione della rivincita dalle disparità, attuata adesso attraverso una violenza che dilaga per contagio come manifestazione di cieca rivendicazione sociale, con furia livellatrice. Nell’ambiguità irrisolta di un senso politico e sociale che si consuma dilapidandosi in brutalità e omicidio, nel ritratto di un antipatico aspirante sindaco che ricorda altri inquilini di abitazioni prestigiose e nell’invidia dissennata delle masse, Todd Phillips si dimostra irriverente e poco corretto quanto nella trilogia del risveglio. La confusione del messaggio va ad affiancarsi alla babele generalizzata di una febbre antisistema che rimastica il populismo ambiente dei nostri giorni, affiancandosi alla inconsapevolezza sadica del suo protagonista, che finalmente sorride nel vedere tutto il resto del mondo crollare, non solo il suo universo personale.
Cupo e intimo, crepuscolare ed efferato, Joker è un film con un inedito spessore, cinico e colto, furbo quanto crudele, registicamente sempre molto controllato e, soprattutto, sorretto da una personificazione impressionante da parte del suo protagonista che incarna, scarnifica e ricostruisce, addobbandola di sfumature o ghigni, l’origine di un’ indelebile iconografia.
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