Regia di Todd Phillips vedi scheda film
Si esce devastati dalla visione di Joker, pietrificati non solo dalla violenza sanguinolenta, ma soprattutto dalla grandiosa prova di Joaquin Phoenix, dalla visione audace dell'autore Todd Phillips e dal livello artistico generale del film che rivoluziona il cinecomic: un incubo urbano oscuro, angosciante, repellente ed indimenticabile.
Un cinecomic Leone d'Oro alla Mostra di Venezia? Cooosa?!? E invece sì, la giuria veneziana ci ha visto lungo e bene, perché il Joker di Todd Phillips rivoluziona il genere cinecomics, che negli ultimi lustri ha (fin troppo) dominato e saturato le sale cinematografiche, in modo che non avrei creduto possibile, portandolo a livelli e su territori mai toccati in precedenza, quanto più lontano dal mondo dei film di supereroi traboccante di effetti speciali ed incredibilmente vicino alla New Hollywood anni 70, quella di Taxi Driver e Re Per Una Notte di Martin Scorsese.
Il film racconta le origini del principale antagonista di Batman, che i fumetti ed i film avevano finora lasciato avvolte nel mistero. In una Gotham City degradata ed invasa dai ratti, che ricrea la New York, vera e cinematografica, di fine anni 70/primi 80, ripresa con crudo realismo, Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è un disadattato mentalmente instabile, che vive in un lurido appartamento con la madre malata (Frances Conroy, che ricordo con affetto per la sua parte nella serie Six Feet Under), lavora come clown a noleggio in una scalcagnata compagnia e coltiva l’assurda aspirazione di diventare un comico di successo, come il suo mito Murray Franklin, protagonista di un seguito show televisivo (Robert De Niro, in un ruolo che ricorda e omaggia il suo King of Comedy – Re Per Una Notte). Ma, come la madre gli ricorda, “Don’t you have to actually be funny for that?”. Infatti Arthur, nel contesto della sua generale incapacità di connessione col mondo esterno, non riesce proprio a capire quello che le altre persone trovano divertente, e lui stesso esplode in isteriche ed incontrollabili risate nei momenti meno opportuni, a causa di una rara sindrome che non viene compresa dalla gente e gli attira addosso ancora maggiore ostilità e disprezzo. Arthur viene infatti frequentemente aggredito ed umiliato, fin dalle primissime scene in cui dei balordi gli rubano il cartello pubblicitario che sventolava per lavoro e poi procedono a pestarlo di botte, ed il suo desiderio di essere “visto” ed apprezzato si scontra contro il muro di rigetto ed incomprensione che la società riserva agli emarginati. Arthur viene poi privato dai tagli alla sanità pubblica persino dell'unica forma di sostegno psichiatrico a cui poteva accedere. Quando, durante una grottesca esibizione da clown nel reparto pediatrico di un ospedale, una pistola gli scivola a terra, il licenziamento arriva puntuale e la discesa di Arthur negli abissi della follia, fomentata ulteriormente dalla scoperta di spiacevoli verità sulla sua infanzia, diventa inarrestabile.
Il commento sociale che Phillips decide di inserire nella pellicola per connetterla anche all'attualità, al di là dell'ambientazione nei primissimi 80, è rappresentato dalla rivolta degli esclusi da una società che schiaccia e stritola gli ultimi, e perfino li irride apertamente e li umilia, come nelle infelici frasi del candidato sindaco, e in ogni caso li abbandona al loro destino, ad esempio con i tagli ai servizi psichiatrici accessibili ai meno abbienti. La ribellione contro la classe dominate che controlla Gotham City, dopo l'omicidio di tre arroganti “yuppies” elegge il clown assassino ad icona e simbolo della rivolta contro il potere, con echi di “V per Vendetta”. In questa folla adorante, Arthur trova momentanea soddisfazione per la sua brama di essere “notato” e finalmente apprezzato, nel prefinale in cui balla beato sul cofano dell’auto della polizia e diventa Joker, crogiolandosi nell'adorazione della folla rivoltosa che lo ha eletto a icona del caos.
Interpretazione colossale destinata rimanere nella storia del cinema quella di un immenso Joaquin Phoenix, che incarna, con la magrezza malata del suo corpo scarnificato, una maschera tragica e straziante, che ci agghiaccia con la sua risata patologica, isterica e incontrollabile, ma che suscita anche un senso di empatia e pietà per le ferite che il mondo gli ha inflitto e per gli abusi che è costretto a subire fin dall'infanzia, nonché per la solitudine in cui viene lasciato sprofondare, solo con i suoi demoni, da una società sorda ed incapace di prevenire lo scivolamento del malessere di un disadattato verso il ciglio dell'abisso. Il villain sfaccettato e complesso, seppur nella sua innegabile mostruosità, che Phoenix è riuscito magistralmente a cesellare assurge così ad antieroe dalla statura tragica, seppur trasmetta una repulsione tangibile, che dà i brividi ogni volta che esplode l'incontrollabile risata. Scene emblematiche, tra le altre, quella in cui Arthur assiste allo spettacolo di uno stand up comedian per trarne ispirazione e ride solo nei momenti sbagliati, la terrificante preparazione della maschera del Joker con tanto di tintura verde, la grottesca danza sulla scalinata di cemento sulle note di “Rock and Roll Part 2” di Gary Glitter e la folle intervista nel talk show di Murray Franklin.
All'insospettabile Todd Phillips, regista della serie comica delle “notti da leoni”, riesce il miracolo di creare un capolavoro crudo ed oscuro, in cui tutte le componenti, dalla fotografia curatissima, alle musiche, alle ambientazioni fatiscenti, ai movimenti della macchina da presa (alternando riprese con la macchina mano e movimenti armonici e sempre espressivi), tutte si allineano perfettamente alla prova magistrale del protagonista per creare un senso di tensione e angoscia che ti si incolla addosso e ti si infila sotto pelle, senza darti tregua per un solo attimo dall’incipit fino ai titoli di coda, fino a risultare insopportabile, quasi fisicamente doloroso. Ad esempio la scena, verso l'inizio, in cui Arthur esibendosi nel reparto pediatrico dell’ospedale e cantando in coro coi bimbi “If you're happy and you know it”, fa cadere per sbaglio a terra una pistola che ha iniziato a portarsi appresso: non succede in realtà nulla di violento, ma la tensione che si è ormai accumulata ti fa saltare il cuore in gola. Questo perché la regia di Phillips riesce a gestire la costruzione narrativa in modo stupefacente ed implacabile, per cui non vi è mai, in oltre due ore di durata, un solo calo di tensione, ma un crescendo in cui le scene dal potenziale iconico si susseguono l'una dietro l'altra.
La musica in particolare si fa assoluta protagonista, prendendosi grande merito nella costruzione della tensione e dell’angoscia che avviluppano tutte le scene, dove alle composizioni evocative di Hildur Guðnadóttir si alternano i brani stridentemente gai come Smile di Jimmy Durante e l'appropriato Frank Sinatra di “Send In The Clowns”. Queste scelte musicali contrastanti ben trasmettono la stridente contrapposizione tra la tragedia dell'esistenza del protagonista e la sua brama di una felicità e una leggerezza irraggiungibili, se non nell'amara ironia del soprannome “Happy” affibbiatogli dalla madre, da cui fin da piccolo Arthur sente ripetere di essere destinato a portare la gioia ed il sorriso nel mondo (“I used to think that my life was a tragedy, but now I realize, it's a comedy.”).
Si esce devastati dalla visione di Joker, pietrificati non solo dalla violenza sanguinolenta, ma soprattutto dalla grandiosa prova del suo protagonista Joaquin Phoenix, dalla visione audace dell'autore Todd Phillips e dal livello artistico generale del film: un incubo urbano oscuro, angosciante, repellente ed indimenticabile.
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