Joker è un’opera autoriale, teatrale, estrema, ipnotica, godibile e disturbante allo stesso tempo. Sono diversi i possibili piani di analisi e di interpretazione, soprattutto del finale che da allo spettatore la carta per (non) mettere la parola fine. Diciamo subito che la prova di Joaquin Phoenix nei panni di Arthur Fleck poi Joker è infinita, si resta incantati dai suoi balletti con quel corpo sgraziato, pelle e ossa, metafora della sua decadenza, della vita che lo conduce alla follia (è questo il filone per me più importante del film). Ma chi è il folle? Lui, che si trasforma in Joker, o chi non ha fatto nulla per curarlo dalla sua malattia mentale? Il primo tempo del film è di attesa, di disagio che ci assale, noi tutti stiamo diventando dei joker. Non a caso, nella seconda parte, a trasformazione avvenuta, Joker non è più un singolo malato mentale che diventa pazzo ma un “collettivo” dei deboli che si ribella. E qui il film diventa amletico dove il confine tra essere e non essere, tra il bene e il male, tra cosa fa ridere e non, è puramente convenzionale. Nel finale catartico Joker viene ospitato nel suo talk show preferito (il cui mattatore è uno straordinario De Niro), da lui mitizzato come trampolino di lancio per diventare un comico vero (e non un comico di basso cabaret come è lui), uno spazio che Joker usa per gridare al mondo che ormai è troppo tardi, e lo fa con un gesto plateale. Ma non sarà la fine del film, che infatti non c’è, segue così una sorta di ripartenza che mette tutto in discussione, ma questo a mio avviso è l’aspetto dietrologico che meno rileva sul senso di questo imperdibile film.
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