Regia di Todd Phillips vedi scheda film
Nuova versione, dopo quella celebrata con l’Oscar postumo a Heath Ledger, del noto antagonista di Batman, Todd Phillips firma una pellicola che ne rilegge le origini, affrancandosi dal tono del fumetto con un iperrelismo spinto, estrema violenza da cronaca nera e nel nome di Martin Scorsese.
Elaborazione estremamente libera e decostruita delle origini di uno dei più noti e famosi antagonisti del fumetto americano (e non solo), il Joker prodotto, scritto (con Scott Silver) e diretto da Todd Phillips è ambientato tra il finire degli anni’70 e l’inizio degli anni ‘80 e ne riscrive le origini, adattando elementi sparsi o anche spesso contraddittori della sua stessa storia fumettistica, mischiandola con la cronaca nera (e sociale) della storia americano e con l’omaggio al cinema di Martin Scorsese, vero nume tutelare nascosto (ma nemmeno poi così tanto) della pellicola.
Il Joker di Phillips in realtà si chiama Arthur Fleck ed è un povero reietto e figlio “bastardo” ai margini della società in una Gotham violenta e sporca (anche spiritualmente), psicologicamente problematico e cresciuto da una madre schizzofrenica, con gravi problemi di autostima e di relazioni con il prossimo, seviziato e letteralmente calpestato, fisicamente e psicologicamente, da chiunque gli stia attorno, anche da chi dovrebbe aiutarlo.
Arthur si trasforma in Joker semplicemente perchè il sistema non funziona e, quando funziona, non lo aiuta davvero in quanto il mondo, come tanti altri disperati, preferisce non vederlo.
Un disagio profondo e quel senso di trascuratezza e abbandono, derisi e trattati con un senso di superiorià da quelli che “contano”, dai ricchi e dalle personalità altolocate.
Come non ricorrere alla violenza pur di farsi notare e ascoltare da un mondo che li considera inutili quando non indesiderati?
Una storia già raccontata in passato (primo fra tutti Taxi Driver di un certo, non a caso, Martin Scorsese) e a cui non aggiunge niente di nuovo.
L’’unica vero intuizione del film in realtà è nella collettivizzazione del Joker, nel suo essere il primo a essere contaggiato da un virus, una specie di paziente-zero, e che, a catena, finirà per contaggiare anche gli altri e nel trasformare quindi un malessere individuale (la follia ma anche disperazione, rabbia, frustrazione) in una malattia e, successivamente, in una pandemia sociale, e riadattando la propria responsabilità personale (od oggettiva) in una responsabilità indiretta e, quindi, soggettiva ma deresponsabilizzando in questo modo qualsiasi genere di azione criminale.
Che poi è anche il segreto (di pulcinella!) del fascino del personaggio.
Se ogni mia azione è conseguenza della società in cui vivo allora qualsiasi azione che compio, per quanto sia grave, è colpa della società e quindi non ne sono direttamente responsabile.
In pratica: tana libera tutti.
E’ questa la natura vagamente anarchica e pericolosa della pellicola, grazie a un contesto sociale e politico volutamente ambiguo costruito dagli stessi autori, e che sta creando qualche problema soprattutto in America, dove tale pericolo è enormemente preso sul serio.
Il film registra anche un certo simbolismo di maniera, a volte anche forzato, come la pistola simbolo di ogni male e, una volta accettata, inizio del declino finale, sociale ed emotivo, di Fleck o come la scalinata stessa, immortalata anche sulla stessa locandina, e rappresentazione delle difficoltà e del male di vivere del protagonista e affrontata da Arthur Fleck, nella pellicola, sempre e comunque in salita, faticosamente, pesantemente, arrancando e in discesa solo alla fine ma come Joker, danzando e ballando, affrancato e libero ormai da qualsiasi impedimento sociale o morale che precedentemente lo opprimevano.
Nel ruolo del Joker Joaquin Phoenix ne offre una personalissima rielaborazione, partendo proprio da quella di Ledger, ma marchiandolo soprattutto di una grande e profonda tragicità, anche emotiva, estremamente reale e anche più complessa, un personaggio per il quale, nonostante tutto, è molto facile empatizzare.
Per arrivare a questo Phoenix opera una vera e propria trasformazione fisica, quasi cronenberghiana, su cui il regista punta enormemente seguendolo pedissequamente, passo dopo passo, in ogni momento, scrutandogli il volto, le movenze, gli sguardi in un film che si può tranquillamente definire semplicemente come un one-man-show e dove agli altri attori vengono lasciati esclusivamente poche momenti in quanto tutte le attenzioni sono di esclusivo appannaggio del suo protagonista.
Attenzione ben ripagata perchè il risultato è l’ennesima performance mostruosa di Phoenix.
Buona anche la prova di Robert De Niro, forse l’unico altro personaggio di un certo rilievo, in quello che sembra soprattutto un omaggio allo stesso attore italo-americano (chi non ha pensato almeno per un momento a Re per una Notte e al suo Rupert Pupkin?) oltre che al solito Scorsese (Of course), nel ruolo di un intrattenitore televisivo di grande successo (idolo dello stesso Fleck in un ribaltimento di ruoli della stessa pellicola di Scorsese) ed è curioso notare come tale personaggio debba le proprie fortune a un tipo di comicità sicuramente di pancia, forse trasgressiva ma anche becera e/o offensiva nei confronti del prossimo, specie per quelli più deboli (nel caso proprio ai danni dello stesso Arthur Fleck), in una evidente metafora degli eccessi televisivi che devono il proprio successo alla sublimazione dello spettatore e dei loro più bassi istinti quando è lo stesso regista ad aver raggiunto il successo, e quindi la notorietà, con una serie come Una notte da leone che deve le proprie fortune proprio a un umorismo piuttosto simile, eccessivo, triviale e spesso scorretto anche nei confronti di minoranze, diversi o del politicamente corretto.
Una prese di coscienza tardiva, sentita autocritica o semplice furbata moralista?
Sembrerebbe che Phillips si sia appoggiato alle opere di Scorsese in quasi ogni aspetto della pellicola, saccheggiando a piene mani in moltissime delle sue opere, iniziando ovviamente da quelle più seminali e conosciute, partendo dalle ambientazioni per poi proseguire con i personaggi e adottandone i temi e le atmosfere, in un omaggio viscerale ma sincero verso il grande maestro e alla sue poetica.
Sembrerebbe. Ed infatti e proprio così.
Una predisposizione all’incensione, per quanto per un regista così fondamentale, che però, ai miei occhi, invece di elevare ulteriormente la qualità della pellicola ne depotenziano le intenzioni e i risultati.
Sicuramente è un film molto ambizioso e che mira addirittura a proporsi come un capolavoro, almeno nelle intenzioni, ma non è decisamente un film perfetto e nemmeno può davvero ambire, nonostante gli sforzi comunque apprezzabili, alla grazia della sua principale fonte di ispirazione (sempre il solito Scorsese), a cui il regista tende costantemente ma che non raggiunge quasi mai pur cercando di ricrearne l’eleganza tecnica e la natura drammatica e sociale dei suoi personaggi.
Tutto è, a suo modo, giusto e corretto per quanto preciso e didascalicamente suggerito ma manca di quell’ansia sociale e di quella fascinazione, anche della stessa violenza, figlia del suo tempo e del suo mondo e che Scorsese conosce visceralmente.
Ed è per questo che, personalmente, mi riesce piuttosto difficile parlare di capolavoro.
Come può esserlo un’opera che è principalmente un’omaggio nel migliore dei casi, o una ruffianeria, nel peggiore, alla storia e alle opere ma anche, se vogliamo, allo spirito e alla visione concettuale e ideologica di qualcun’altro?
O in definitiva, dando per scontato dell’apporto “abnorme” e fondamentale di Phoenix e della sua performance, quanto del successo del film è in realtà di Phillips (e del suo lavoro di riconversione e adattamento, comunque notevole) e quanto invece del lavoro di Scorsese, e quindi anche (soprattutto?) della “sudditanza” e/o nostalgica “riconoscenza” verso le opere del grande cineasta newyorkese da parte dello spettatore stesso?
VOTO: 7/8
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