Regia di Todd Phillips vedi scheda film
Origin story di uno dei villain più iconici di sempre ma, prima ancora, un film traboccante di dolore, cosparso di quelle mancanze che stanno annientando la nostra società dall'interno. Con un Joaquin Phoenix leggendario: è talmente in parte da farci credere di essere realmente impazzito sul set.
Venezia 76 – Concorso.
Viviamo in tempi duri, in un mondo oscurato che ha dimenticato il calore dei piccoli gesti, rimpiazzati dall’egoismo e dalla sopraffazione esercitata sugli agnelli sacrificali. Individui indifesi che chiederebbero semplicemente una molecola di conforto, una mano tesa da afferrare per non sprofondare nell’abisso, ricevendo invece tutt’altra moneta. Anche dalla gente cosiddetta perbene, superficiale al punto di non mettersi nei panni degli altri, oltremodo aggressiva e sprovvista di freni morali, abituata a ricevere un tacito perdono quando si scaglia con foga e angheria contro il disadattato di turno.
Proprio da un siffatto ecosistema, che inevitabilmente spinge a non credere in nulla, è nato il Joker, storico arcinemico di Batman - interpretato da Jack Nicholson in Batman e da Heath Ledger in Il cavaliere oscuro -, descritto in questo film dal regista Todd Phillips e dal protagonista Joaquin Phoenix partendo dalle premesse: le ingiustizie subite, i sogni infranti e una malattia mentale che destabilizza senza ricevere in cambio alcun analgesico da parte del prossimo.
Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è un uomo dimesso, diviso tra un precario lavoro da clown, una madre malata (Frances Conroy) e il sogno di sfondare come comico, possibilmente partecipando allo show del suo eroe Murray Franklin (Robert De Niro). .
Alcune cocenti delusioni e una spiazzante scoperta sul suo passato, lo spingono in un tunnel delirante, nel quale i confini tra realtà e inconscio sono permeabili. Nel frattempo, per strada impazza una temuta protesta, con il rischio concreto di trasformarsi in un’apocalisse urbana.
Anche i villain esigono la loro vetrina. Il Joker diretto da Todd Phillips, quello di Una notte da leoni che con il precedente Trafficanti aveva lanciato cenni di un’inversione di marcia, è un’origin story sui generis, che si smarca da tutta la produzione legata ai supereroi in auge a partire dai primi anni duemila.
Per prima cosa, sedimenta un tessuto sociale minato dal disagio, che nelle grandi metropoli non salva nessuno, luoghi dove la cattiva coscienza genera violenza, quella della peggior risma poiché caratterizzata da una cattiveria aberrante. A questo sfondo associa il sogno di Arthur di emergere come stand-up comedian, uno spazio in cui annaspa, nel quale la sua condizione psicologia ammaccata perde gli appoggi.
Due scenari influenzati con tutta evidenza dal cinema di Martin Scorsese, nello specifico da Taxi driver e Re per una notte, per disagio, ossessioni e lacerazioni.
Così, Joker è prima di tutto un dramma contemporaneo contenente un dolore lancinante e straripante, un prodigarsi di sensazioni disturbanti, sia fisiche sia psicologiche, a tratti insostenibili, ma non perde nemmeno gli agganci al background del personaggio, con l’ecosistema di Gotham City, la famiglia Wayne ed esibiti crossover narrativi (assolutamente da non spifferare).
Un assembramento dominato dal Joker di Joaquin Phoenix, trasformista superlativo e credibile al punto di ipotizzare sia realmente impazzito sul set, ma anche Robert De Niro riemerge dalla melma di una preoccupante sequela di scelte sbagliate (che sia propedeutico alla definitiva rinascita artistica da ottenere con The irishman?), con un’interpretazione autorevole, che pare sbucare direttamente dal passato remoto.
In virtù di queste caratteristiche, Joker è il risultato di una rischiosa e radicale compenetrazione di svariati elementi. Scioccante per gli strappi di violenza feroce e deviata, malato per la sua ironia malsana, classico per altre (sporadiche) dosi di humour da commediante navigato, un patchwork sull’emersione del lato malvagio, sulla genesi di un mostro scaturita da abbandoni, delusioni e soprusi che spingono tra le grinfie dell’emarginazione. Con risate isteriche in sostituzione degli abbracci mancati e di una parola di conforto, un maremagnum interiore che Joaquin Phoenix rende indelebile.
Dissonante, abissale ed eversivo.
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