Regia di Todd Phillips vedi scheda film
Capolavoro di furbizia (la prima volta me l'aveva quasi fatta ma, d’altronde, ci è cascata pure la censura cinese), Joker è un film grossolano, ordinario, rozzo, volgare e stupido.
Grossolano. Intercettare il forte sentimento anti-establishment delle democrazie occidentali contemporanee innalzando a eroe un paziente psichiatrico che la società brutta, sporca e cattiva ha emarginato è quanto di più moralmente dubbio possa esserci. La sensibilizzazione sulla salute mentale è un tema caldo della nostra epoca e giocarci in questa maniera è una mossa subdola e viscida. La questione morale è importante tanto in politica quanto al cinema.
Ordinario. Il cinema anni Settanta a cui Joker guarda insistentemente a partire dai calligrafismi cromatici del direttore della fotografia Lawrence Sher eccelleva nel ribaltamento non solo degli stilemi di genere ma anche del senso stesso della narrazione classica, portata verso i territori della denuncia, della protesta, con toni talvolta sovversivi, talvolta esistenzialisti, spesso violenti, i cui bersagli erano chiari e identificabili anche nei film più industriali (si pensi al clamoroso Il colpo della metropolitana di Joseph Sargent). Todd Philips e il co-sceneggiatore Scott Silver rimangono ingabbiati in un opaco dramma d'autore, che non fa mai proprie né le dinamiche del noir moderno né del cinecomic coi cui immaginari instaura un flirt che rimane sempre vago. La Gotham City del 1981 ancora profondamente intessuta di umori '70s è solo un simulacro scenografico che rimanda alle metropoli odierne, senza nessun tipo di rielaborazione autoriale propriamente detta né sul presente né sul passato, né coi mezzi del noir né coi mezzi della origin story supereroistica. Se la rielaborazione d'autore fallisce, cosa rimane se non la ruffianeria degli omaggi e degli ammiccamenti?
Rozzo. La concessione di ogni attenuante all'antieroe/paziente psichiatrico e di ogni aggravante alla società civile e politica, unitamente all'assenza di qualsivoglia riflessione sfaccettata sulla natura umana o sull'essenza dell'industria dello show-business, è degna di un utente medio arrabbiato con la vita che sfoga le proprie frustrazioni su Facebook. La gestione della love story è prevedibile, ricattatoria e stupida. Il finale che finge di rimettere in dubbio quanto raccontato fino a poco prima completa il disastro.
Volgare. I ragazzini che si accaniscono gratuitamente sul comico di strada, pur non essendo dei teppisti (guardate come sono vestiti), erano già un pessimo segnale. Ma piegare a vessillo anarchico-insurrezionalista uno dei più grandi capolavori della musica leggera come That's Life di Dean Kay e Kelly Gordon nella leggendaria versione del 1966 di Frank Sinatra è un’operazione becera, triviale e sguaiata. O, forse, semplicemente infantile.
Stupido. Quando vuoi fare un film di impegno civile, arrabbiato coi potenti e vicino ai dimenticati ma finisci per esaltare involontariamente il reazionarismo, o sei rossobruno o sei solo stupido. Propendo per la seconda.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta