Regia di Mike Newell vedi scheda film
Si entra subito nel film: niente fronzoli, né barocchismi di bassa lega che sottolineino la forza quasi epica di una storia del genere. Lo stile che sceglie Newell è secco, essenziale, asciutto. Non lascia spazio ad un’immaginazione visionaria, ma si attesta sulle corde di un noir metropolitano sulle conseguenze del sentimento più rapsodico che possa esserci (l’amicizia, o qualcosa che si avvicina ad essa). Tutto giocato sul dualismo di una messinscena crepuscolare, Donnie Brasco è il curioso ingresso nel genere di un regista avulso alle logiche del gangster movie, che riflette sulle psicologie dei suoi personaggi con duro distacco (c’è una sceneggiatura congegnata in modo eccellente, da studiare per la sua perfetta calibrazione di battute ad effetto ed indagini interiori). Il tema del dualismo si ritrova in ogni angolo delle strade abitate dai personaggi: la doppia vita dell’agente Pistone, trasformatosi nel gioielliere Donnie Brasco; la specularità del rapporto tra Pistone e Lefty; la malavita e la legge; l’aspirazione ad una Mafia “alta” e la condizione di sottobosco banditesco; la contraffazione e la purezza; la sincerità e l’inganno. Proprio quest’ultimo è il tema più nascosto e sofferente del film: se il criminale di turno, Lefty, trova nello sbirro sotto mentite spoglie la possibilità di passare il testimone e di “trasportare” l’eredità accumulata in anni e anni di strada, e dunque manifesta una sincerità e una fiducia rare, Pistone-Brasco (un Johnny Depp alla prova, a tutt’oggi, più matura della sua carriera) è travagliato tra le esigenze del distintivo e la paura di deludere ulteriormente un uomo che non può più chiedere niente alla vita. L’uno si lascia fregare, l’altro frega ma non vorrebbe: a Pistone, Lefty fa quasi pena, e non vuole fargli trascorrere gli ultimi fuochi di un’esistenza, tutto sommato dolorosa, ancora più tristemente. Come Carlito Brigante, Lefty si avvia dolente verso la propria fine, e ne sviluppa una dimensione più sconsolata, scoraggiata, sfigata. Un Al Pacino (già indimenticato Carlito), sgraziato e al contempo in stato di grazia, gli dà l’anima, il corpo, le palle (il doppiaggio di Giancarlo Giannini gli rende giustizia). Destinato a quella fine, a quella solita fine, inevitabile.
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