Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
Le stravaganze della vita diventano nel cinema almodòvariano le regole dell’esistenza. Nel suo eccedere verso l’inverosimile che acquista lo status di ordinario, Almodòvar riesce a imporre il suo modo di concepire il cinema (che poi è vita, dopotutto) in nome dell’eccentricità al potere, del fuori-dal-comune che inevitabilmente diviene comune. La capacità del regista di realizzare questo intento bizzarro raggiunge il suo apice con Carne tremula, l’opera più matura del primo periodo della sua carriera (film-cerniera con Tutto su mia madre). Il respiro è arioso, la storia è corale, il registro è variabile. L’arco narrativo si snoda lungo ventiquattro anni, in tre momenti: il primo, abbastanza breve fa fulminante, con un parto metropolitano; il secondo, vent’anni dopo, con il bambino cresciuto e diventato ormai uomo, che si innamora di una ricca tossica – più altri personaggi che girano intorno ai due; il terzo, quattro anni più tardi, con il protagonista uscito dal carcere e impegnato in una sorta di educazione sessuale-formativa. Il merito maggiore che si può attribuire a Carne tremula è la sua varietà stilistica. In teoria è un melodramma, che è la corda più adeguata dell’autore, ma le virate verso altri generi sono ben evidenti. Si va dal poliziesco al giallo, dalla commedia al dramma, dal grottesco all’erotico.
È la summa del cinema almodòvariano di prima maniera, c’è tutto quello che ti aspetti da tale autore. Tracima sensualità, appassiona per la fluidità con la quale affronta una storia che altri registi non avrebbero saputo snodare in poco più di un’ora e mezza (tra l’altro senza una sbavatura, priva di qualunque passaggio inutile), gioca con le emozioni dei suoi personaggi borderline a suon di canzoni veementi e colori esplosivi. Pur essendo un plot drammatico (non convenzionalmente, però), la fotografia e le scelte cromatiche impiegate si muovono su espressioni tutt’altro che tetre o tenebrose: è la fiera intensa del rosso e l’arancio, del giallo e il viola, ossia di tutti quei colori singolari e caldi che tu non ti aspetti in un film del genere (sempre se non conosci Almodòvar).
Ragionandoci un po’ su, è un film cupo: in fondo non vivono esistenze esaltanti i cinque personaggi che ballano la storia e abitano il racconto. Anzi, tutti vivono in condizioni al limite, sia fisico che psicologico (chi sta in carrozzella, chi si droga, chi vuole divorziare ma non ci riesce, chi è possessivo, chi non ancora trova il suo posto nel mondo, chi partorisce in tram…), e Madrid, nelle sue contraddizioni e nelle sue luci misteriose, ne è la cornice perfetta. Inoltre, c’è un insolito sangue politico che scorre nelle vene del regista, fino ad allora avulso dal denunciare realtà sociali a livello militante: il protagonista nasce in pieno regime franchista, cresce nella democrazia e nell’epilogo si rende conto che oramai “è da molto tempo che la Spagna non ha più paura”. Una certa consapevolezza politica si aggira nei meandri turgidi di questo brillante e fremente fotoromanzo d’appendice. L’ennesima contaminazione del geniale autore.
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