Regia di Robert Aldrich vedi scheda film
“Io so solo che la merda rotola in discesa. E noi siamo esattamente in fondo a una vallata”.
Los Angeles. Storie ordinarie di un gruppo di poliziotti di una scalcinata sezione, alcuni dei quali ex reduci, altri provenienti da realtà difficili, quasi tutti irrimediabilmente soli. Trascorrono le giornate a risolvere problemi quotidiani e ad affrontare piccoli casi, per lo più di prostituzione. E le nottate a sbronzarsi, per dimenticare i tormenti di anime dilaniate dalla paura e dai sensi di colpa.
I ragazzi del coro è la terzultima opera da regista di Robert Aldrich, adattamento sceneggiato da Christopher Knopf del romanzo The Choirboys scritto dall’ex sergente di polizia Joseph Wambaugh, già autore de I nuovi centurioni dal quale era stato tratto un ottimo film diretto da Richard Fleischer. Il film esce accompagnato da polemiche e da scandali (la polizia ritratta in questo modo?) e lo stesso Wambaugh rinnega il copione scritto da Knopf e l’adattamento di Aldrich, secondo lui troppo spietatamente pessimisti e non in linea con lo spirito del libro. Oggi I ragazzi del coro non fa neanche più discutere, è quasi sparito dai radar e se lo si va a cercare su Imdb, viene bollato con una media voto del 5,5. Ma ci credereste se vi dicessi che si tratta probabilmente di uno dei film migliori di Aldrich, nonché uno dei titoli da mandare a memoria del cinema americano degli anni Settanta? Beh, io vi dico di sì.
Pochi film hanno saputo trattare in maniera così spudoratamente aspra e critica l’istituzione della polizia statunitense, pochi sono riusciti a spingersi oltre giungendo ad un simile apologo negativo di una nazione sempre più contraddistinta dal putridume e dal marcio. Il racconto prosegue quasi senza una trama, tra resoconti di giornate e di sbronze colossali. Dal primo all’ultimo minuto contraddistinto da un tono ironico e disincantato che sputa merda su tutto e su tutti e non fa sconti a nessuno, tra le piaghe lascia trasparire un’amarezza che viene fuori prepotente nei momenti di maggiore tragicità. La radiografia di un paese che ha perso da un pezzo la propria verginità, dove il Vietnam brucia ancora le coscienze degli uomini e ancora ne turba gli equilibri psichici e le paranoie. Sogni di gioventù per sempre infranti nel sangue.
La sezione di polizia di Los Angeles è abitata da un nutrito gruppo di disperati: c’è il sergente di colore esperto e giocherellone, il giovane poliziotto che si frequenta con una prostituta di alto bordo dedita al sadomasochismo, il pazzo razzista e sessuofobo che viene addirittura premiato come poliziotto del mese (“Adesso sappiamo chi sono gli stronzi che ci hanno ridotto così!” commentano i colleghi), il ragazzo di buona famiglia e di buona educazione assunto alla buon costume, il sergente italoamericano comprensivo e umano, l’idiota capo della polizia che incita i suoi uomini a reagire contro criminali assolti in tribunale (“Complimenti signore, lei ha reso 45 uomini tranquilli in 45 belve assetate di sangue!” gli rinfaccia polemicamente il sergente, e lui ottusamente risponde “Grazie, sergente!” senza aver capito il senso della battuta), la poliziotta ribattezzata “Senza palle” dalla squadraccia e vittima di scherzi e assalti di ogni tipo. Su tutti c’è però il sergente Spearmwhale, interpretato da un Charles Durning sublime in uno dei suoi pochissimi ruoli da protagonista, al quale mancano sei mesi da una pensione che forse non godrà mai per il suo essere inviso ai superiori. È proprio lui, nella sua saggezza e esperienza, a fare da lume tutelare ai suoi ragazzi. Perché, come dice Spearmwhale, “bisogna sempre trovare una via di mezzo tra il bene assoluto e il male assoluto”.
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