Regia di Ettore Scola vedi scheda film
Scola è ricordato per alcuni fra i film più importanti del cinema italiano fra il ’70 e il ’90: immemorabili fra tutti il doloroso C’eravamo tanto amati, il crudissimo Brutti, sporchi e cattivi, lo struggente Una giornata particolare e le due dense epopee che sono La terrazza (saga generazionale, sociale e politica) e La famiglia (saga domestica ed esistenziale).
Ballando ballando (più esattamente Le Bal, titolo originale francese, in omaggio ai produttori, oltre che alla location) non è considerato fra i migliori di Scola (e nemmeno fra i capolavori del cinema di quegli anni), ma presenta due singolari caratteristiche che ne fanno il più anomalo e nello stesso tempo il più “scoliano” dei suoi film:
- l’unità di luogo (una sala da ballo) che ricorda quella di Una giornata particolare ma anche, in una certa misura, quelle di La terrazza;
- la carrellata temporale, e cioè lo sviluppo narrativo che si sviluppa in un intervallo di tempo particolarmente lungo (dagli anni ’30 agli ’80) che ritroviamo in C’eravamo tanto amati ma anche ne La famiglia.
La trama è esile, anzi inesistente, come i dialoghi, totalmente assenti: il senso è reso solo da movimenti e musiche.
Siamo in una sala da ballo della periferia parigina.
Qui si susseguono, in cinque momenti - 1940, 1945, 1956, 1968, 1983 - le microstorie di una trentina di personaggi (fatte di tristissime solitudini) sullo sfondo della Storia che pur nei suoi sconvolgimenti (Fronte popolare, guerra mondiale, nazismo, liberazione, il rock, conflitti di Indocina e Algeria, il ’68) non scalfisce minimamente la vita degli individui e non contribuisce a modificarne i caratteri, il destino esistenziale, la squallida condizione di infelicità. I cinque momenti storici sono incisivamente scanditi dalla sincronica microstoria della musica, dal charleston alla disco, attraversando Bécaud (Et maintenant) e Aznavour, la Paloma e la Java, Parlami d'amore Mariù (cantata da De Sica) e Lili Marleen, La vie en rose, Il negro Zumbon, Tutti frutti e Only you, per arrivare a Michelle e al botto finale, sintesi del film, Qui reste-t-il de nos amours di Trenet, un punto esclamativo indimenticabile.
L’arredamento, le luci e le musiche fotografano i diversi passaggi; gli abiti e gli accessori circostanziano i momenti storici.
Le biografie sono solo accennate, come dei piccoli flash che fissano passaggi apparentemente marginali ma significativi di una microavventura personale il cui quadro sostanziale deve essere captato da minuscoli indizi.
I “tipi” presentati sono quasi icastiche caricature: vedi la sfavillante carrellata iniziale con i protagonisti che, uno dopo l’altro (prima le donne!), fanno la loro entrée nella sala da ballo - ognuno con suo abbigliamento che già lo racconta, con la sua andatura e il suo portamento che svelano temperamento e indole, con le sue mosse (più precisamente dei tic) che ne smascherano la personalità; proprio come accade nel cinema muto.
Questa particolare capacità di Scola - quasi una sua seconda natura - nasce dalla sua naturale vocazione di bozzettista (si racconta che perfino i suoi libri scolastici fossero zeppi di schizzi, caricature e vignette comiche) e si sviluppa “professionalmente” nella giovinezza, nelle sue precoci esperienze lavorative (si fa per dire, che il lavoro suo fra il ’46 e il ’60 era un divertimento goliardico) quando viene scritturato per preparare vignette e piccoli dialoghi per il Marc’Aurelio, rivista umoristica che, fra il 1931 e il 1958, ha visto sfilare nella sua redazione personaggi del livello di Age e Scarpelli, Metz, Marcello Marchesi, Giovanni Mosca e, fra i cinematografari, Mario Bava, Camerini, Steno (Stefano Vanzina), Cesare Zavattini e Fellini.
Ed infatti i bozzetti (alcuni dei quali richiamano i tipi felliniani) sono di una strepitosa efficacia: nessuna narrazione restituisce la sostanza biografica come le chiare rappresentazioni caricaturali che qui vengono date dai volti, dai gesti, dagli incontri degli sguardi, dalle attese, dalle prossemiche, dai modi timidi o audaci del corteggiamento, dai tentativi più o meno riusciti di approccio.
A proposito dell’unità di luogo, a sottolinearne il rigore e i valori metaforici, faccio notare che la macchina da presa si affaccia sulle rampe delle scale di uscita e sui bagni, ma si arresta sull’ultimo gradino e nell’antibagno senza osare oltre, significativamente.
Il regista, per evitare il rischio claustrofobico di fissità dato dal fatto che per tutto il tempo (quello del film e quello della storia) non ci si schioda da una sala da ballo e da locali confinanti, usa con sicura professionalità le luci e le tonalità di colore (contrasti acidi e flou d’atmosfera), muove la macchina da presa con sapiente fluidità per evitare la staticità teatrale (considerato che la sceneggiatura ricalca proprio una pièce teatrale), annoda carrellate sciolte, piani sequenza ritmati sulla colonna sonora, primi piani espressivi, panoramiche quasi danzanti.
Il film comincia e finisce nel 1983. Un cerchio che si chiude. Un segnale potente (e disperato) della immutabilità della vita, della sua impermeabilità.
La Storia qui si indovina per alcuni specifici segnali e filtra appena con echi e rumori lontani, ma resta fuori, come vaga intuizione. Se entra (quando, per esempio, la sala interrata viene adibita a rifugio) si piega alle dinamiche della balera, alle regole del piccolo tempietto della danza (vedi l’arrivo del nazista o dei Marines che non sconvolgono più di tanto i ritmi immutabili e i riti, sociali o religiosi, del rigido cerimoniale).
Il luogo chiuso è paradossalmente come una area di transito, un non-luogo, un palcoscenico con le quinte spalancate in cui gli individui entrano avidamente in scena ed escono senza far rumore, presto archiviati, sostituiti da altri ugualmente transitori, ugualmente dimenticabili.
Una triste ammissione della ininfluenza della grande Storia sulle minuscole storie. Una desolata lamentazione contro l’imperscrutabile indifferenza degli dei.
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