Regia di Curtis Hanson vedi scheda film
Sentire che la storia del film di Curtis Hanson semplifica la storia del romanzo di James Ellroy lascia mal sperare nella possibile semplicità del romanzo (o anche nella possibilità che il libro potrebbe chiarire molti passaggi). E invece c’è qualcosa di peggio dell’intreccio noir e davvero sgradevole di L.A. Confidential, mitico thriller polifonico in cui ci sono almeno quattro protagonisti e nessuno di questi, cambiando sempre ruolo e comportamento, è davvero un personaggio rassicurante e positivo, nel senso più tradizionale del termine. Tra ricerca di giustizia “moralista” e giustizia sommaria, oltre all’idea stessa di proiettare il proprio essere nell’apparire hollywoodiano del cinema e della televisione di bassa categoria (il personaggio scintillante di Spacey), il quadro che viene dato dell’umanità di questa città autodistrutta è pessimistico oltre che davvero spietato. Nessuno si salva neanche fossimo nel più cinico degli Altman, e l’intreccio si stempera in pulsioni erotiche profonde con una Basinger che però fa la femme fatale più debole di quanto appaia. Guy Pearce, che poteva essere un po’ l’eroe della situazione, è in realtà il più ingenuo (e illuso) dei tre, incapace di perseguire le volontà non proprio lecite del suo capo (John Cromwell altrettanto scintillante) nonostante le discrete abilità “politiche” che anche chi più lo odia gli concede. Ed in effetti il personaggio di Pearce sembra muoversi in una caserma di polizia che è più un liceo in cui fare lo spione comporta la vendetta dei bulli.
La presenza poi di Danny DeVito lascia intendere che questo film, vista l’acidità e il disincanto, poteva dirigerlo proprio lui. Però è pure vero che Hanson, pur nell’anonimato della sua regia, dà a L.A. Confidential quel tocco di professionalismo che lo rende paradossalmente indimenticabile: i personaggi, pur nella loro negatività, assurgono a dimensioni quasi mitiche, spinti dai loro comportamenti e dalle loro intenzioni che sono, alla fin fine, gli unici aspetti “costanti” dell’intero intreccio, perché la narrazione spazia qua e là gettando una serie di indizi e andando recuperandoli come, senza lo stesso successo, era riuscito il mitico Grande sonno hawksiano. Inutile dire che in entrambi i casi si parla di “riduzione cinematografica” e che in entrambi i casi la bellezza del film prescinde la trama in sé e per sé.
Comunque, mentre L.A. Confidential rivela il marcio in coloro che invece lasciano intendere che controllano e rendono sicuro tutto (la polizia, fatta di maniaci fin troppo attaccati alle donne e prime donne alla ricerca dei riflettori), è lo stesso mito del machismo a venire meno (la destrutturazione del personaggio di Russell Crowe), come anche il mito della bellezza femminile, in una Kim Basinger che fa il suo lavoro benché non faccia palpitare come invece avrebbe potuto promettere dallo sguardo profondo della copertina. Perfetto lavoro sul contesto, sulle scenografie e sui dialoghi: un noir tutto d’un pezzo che forse ha rischiato fin troppo di passare in ombra. Da recuperare.
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