Regia di Jake Scott vedi scheda film
Chi cerca, trova (e i cocci sono suoi). Probabilmente non subito, sicuramente non tutto quanto richiesto, talvolta a disposizione solo a tempo determinato, un delimitato spicchio di orologio biologico che non placa il desiderio di trovare un insperato punto stabilità. D’altronde, non si può aver tutto, soprattutto per quelle persone che sono state abituate alla sconfitta, a vivere alla giornata godendo di quel poco che il fato gli concede.
Per trovare se stessi e il proprio posto nel mondo, non per forza confortevole ma almeno di natura propiziatoria, per i meno fortunati occorre sbattere più volte la testa contro un muro, riuscire a risollevarsi anche quando le botte ricevute stenderebbero un bisonte e i lividi rimangono permanenti, visibili a occhio nudo. Insomma, in questi casi serve avere il coraggio e la forza di andare avanti, di non arrendersi pur non potendo occultare una sofferenza che dilania l’anima.
Già nonna prima di festeggiare i quarant’anni, Debra (Sienna Miller – American sniper, The loudest voice) è sconvolta quando sua figlia Bridget (Sky Ferreira – The green inferno) scompare nel nulla. Costretta ad allevare suo nipote, sorretta dall’affetto della sorella (Christine Hendricks – Mad men, Lost river) e con un rapporto contrastato con sua madre (Amy Madigan – L’uomo dei sogni, Gone baby gone), non ha fortuna con gli uomini, passando dal violento (Pat Healy – Cheap thrills - Giochi perversi, Run) a Chris (Aaron Paul – Breaking bad, Need for speed), che inizialmente sembra l’uomo perfetto.
Nonostante le ripetute battute d’arresto, Debra non alza bandiera bianca, neanche quando riceve l’unica notizia che non vorrebbe mai sentire.
Per quanto il presente sia compromesso, a ben vedere tenebroso, Debra sceglierà di guardare avanti.
Otto anni dopo Welcome to the Rileys, Jake Scott conferma di saper maneggiare e amministrare il registro drammatico, evitando gli eccessi, rimanendo sul pezzo senza accusare il bisogno di ripiegare su espedienti di comodo.
Come il titolo originale lascia intendere, quindi senza mentire, con American woman redige un variopinto ritratto di donna, inserito all’interno di un perimetro ben definito. Si addentra in una comunità ai margini, lontana anni luce dai luoghi dove il successo è a portata di mano, illustra esistenze problematiche, ispezionate per descrivere perdite che lasciano ferite insanabili, così come una ferrea forza di volontà che permette di ricomporsi, vuoti incolmabili ma anche spalle che non tradiscono mai il loro supporto, crolli verticali e ricostruzioni che ripartono dalle macerie.
Una composizione fatta di sogni costantemente rimandati, dove conta semplicemente rimanere a galla, che offre uno spaccato sociale piuttosto nitido, con una netta prevalenza dell’emisfero femminile, mentre gli uomini ne escono con le ossa a pezzi, descritti – di volta in volta – come lascivi, possessivi, maneschi o traditori.
Va da sé che se la definizione dell’insieme è compiuta e pertinente, il peso specifico sostanziale è affidato alla protagonista, che Sienna Miller raffigura con una mappatura sfaccettata e intensa, da attrice di classe in grado di identificare ed esprimere sensazioni agli antipodi, risultando aderente e convincente, appagante in ogni contingenza.
In sintesi, American woman è un film che si mette a nudo senza strafare, un dramma frontale e crudo, che evita di ricorrere ad additivi supplementari. Scava nella vita vissuta, tra battaglie da affrontare e sconfitte da assorbire, accesi litigi e atti consolatori, delusioni cocenti ed euforie momentanee, picchi di dolore e squarci di serenità. Con cuori danneggiati che meritano un tifo a spada tratta, affinché i loro sogni sempre posticipati possano finalmente vedersi avvicinare l’orizzonte della realizzazione personale e della felicità.
Umile e perseverante, partecipativo e vivido.
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