Regia di Michael Moore vedi scheda film
Dopo il simpatico Where To Invade Next (rivolto però in prevalenza al pubblico americano), Moore torna in pompa magna con il suo miglior film dai tempi, almeno, di SicKO. Con rinnovato vigore, ritrovata vena caustica, satirica ma anche analitica, minor protagonismo rispetto al passato, e una nuova necessità di smuovere le coscienze (e il discorso si amplia ben oltre i confini statunitensi e le vicende legate a Donald Trump), il regista di Flint si cala nella poco (per nulla) rosea situazione odierna, forte, tra le altre cose, anche della sua acuta capacità di intuire meglio di quasi qualunque altro analista quegli che si sarebbero rivelati gli effettivi risultati delle urne (in altre parole, l’elezione di Trump).
Seziona la figura del 45° presidente degli Stati Uniti, non dimenticando la sua consueta ironia (arma quasi sempre vincente, nei più variegati contesti), e tocca vertici ancora più altri quando invece si scaglia contro il governatore del Michigan Rick Snyder (e il racconto delle vicende riguardanti l’acqua a Flint, sua città natale, fa, allo stesso tempo, commuovere e indignare).
Attacca i repubblicani, e il loro essere sempre più staccati dalla realtà e dai bisogni della maggioranza, ma non solo loro. In realtà, non risparmia niente e nessuno, a cominciare dall’establishment democratico (vedi la questione delle primarie), e dai precedenti presidenti facenti parte del medesimo partito (ovvero Clinton e Obama, di entrambi i quali vengono, sinteticamente, indicate le “malefatte”, ovvero le politiche portate avanti contro il parere generale dell’opinione pubblica, in un pericolosissimo avvicinamento alla “parte avversa”, ovvero i repubblicani; e soprattutto contravvenendo in buona parte alle promesse fatte in campagna elettorale, nonché tradendo la fiducia dei propri elettori, molti dei quali si dichiareranno delusi dell’operato del primo presidente nero della storia degli Stati Uniti [emblematico, a tal proposito, l’episodio della visita di Obama a Flint]).
L’ascesa di Trump, intende dimostrare Moore, non deve essere vista come un “fulmine a ciel sereno”, qualcosa di totalmente inaspettato e sicuramente irripetibile, al contrario: sono state anche le politiche portate avanti dal Partito Democratico a preparare il terreno alla sua vittoria. Alla vittoria di un uomo dichiaratamente misogino, razzista, negazionista del cambiamento climatico (nonchè figura piuttosto oscura, dal passato poco limpido, che non a caso ha suscitato inevitabilmente il confronto con una certa figura nostrana...).
Ma in Fahrenheit 11/9 non v’è solo questo. Vi è anche un accorato appello a non dare mai nulla per scontato, neanche quei diritti che ormai si danno per assodati; e, insieme, un invito, un incitamento a non rimanere immobili e passivi, ad interessarsi, informarsi ed essere parti attive della vita politica. Perché il mantenimento della democrazia non è assicurato, ed è anzi sempre più a rischio. E’ necessario spingere, dunque, per una nuova era della democrazia, una vera e propria democrazia che non solo riesca a riportare le persone a votare, ma anche ad eliminare, o quantomeno ridimensionare fortemente, quei poteri oligarchici (o meglio plutocratici) che, oggi come oggi, la inquinano e ne dettano la linea.
Perché, non può dirsi democrazia, come ricorda Moore, “se chi prende più voti non vince” (ma, d’altra parte, nemmeno se chi viene eletto non rispetta il volere dei propri elettori, rappresentandoli effettivamente, ed anzi s’inchina ad altri interessi, anche cambiando repentinamente e sfacciatamente politica). E, ancora, non può dirsi democrazia se una vasta fascia di popolazione non si reca alle urne. Di più: non può dirsi democrazia un sistema retto da simili leggi elettorali (da italiani, vi ricorda qualcosa?).
Il regista mette, insomma, molta carne al fuoco, talvolta non sviluppando appieno alcuni concetti, bisogna ammetterlo, ma riesce ugualmente a suscitare la riflessione e a trasmettere messaggi e ideali che risuonano ben oltre i confini nazionali (si potrebbe dire in tutto il mondo). E il suo film si afferma pertanto come una visione imprescindibile. Peccato che tanto negli Stati Uniti quanto da noi non abbia ottenuto grande successo, nonostante la buona accoglienza critica
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