Regia di Peter Strickland vedi scheda film
TFF 36 - AFTER HOURS
Di vestiti assassini o promotori di reazioni incontenibili, se ne sono già visti nel cinema di genere, e anche in qualcosa che voglia andare oltre la semplice rappresentazione della paura o dell'orrore. Il maestro Tobe Hooper ci propose il suo non proprio memorabile Il vestito che uccide, nel 1990, mentre qualcosa di più sofisticato lo ricordiamo nel 1996, con la commedia spiritata Il vestito, a cura del regista olandese Alex Van Warmerdam (lo stesso di Borgman).
In una via di mezzo tra l'horror più sofisticato e la commedia al vetriolo, accogliamo il felice e riuscito ritorno in regia di Peter Strickland, autore pieno di stile che apprezzammo con l'esordio di Katalin Varga, ma che ci lasciò un po' più freddi con i successivi Berberian Sound Studio e l'ambiziosissimo The Duke of Burgundy.
In questo complesso e splendidamente coreografato In Fabric, si materializza il vestito rosso assassino, unico da catalogo rimasto, e quello che si macchio di un increscioso e cruento destino in capo alla modella che lo indossò posando per il book fotografico ufficiale del negozio di moda che ora lo offre tra le svendite.
La divorziata Sheila è la prima che lo adocchia, e la responsabile delle vendite, cerca subito di rifilarglielo, forte del suo incedere malizioso ed insistente, che approfitta della vulnerabilità della mite signora.
L'abito avrà conseguenze terribili su di lei, e non solo con riferimento agli sfoghi epidermici che lo stesso renderà visibili sulla pelle delle sue proprietarie.
La spiegazione, se così si può considerare, o comunque l'origine di tutte le sanguinolente conseguenze, deriva da particolari rituali che il personale del negozio è solito praticare nelle ore di chiusura del magazzino, guidati dal vampiresco responsabile del negozio, un uomo dallo sguardo non meno malizioso e insinuante della sua prima aiutante, che assomiglia, per fattezze irregolari ed aguzze, all'indimenticabile vampiro di Murnau. Un maniaco sessuale che utilizza il vestito maledetto per far sue le acquirenti ammaliate dalle fattezze del capo sfolgorante e purpureo in questione.
Con un atteggiamento satirico nei confronti della febbre commerciale che si scatena durante il fatidico, rutilante periodo dei saldi, Peter Strickland si conferma un regista talentuoso e visionario, sottile indagatore dei recessi più occulti ed inconfessabili di una umanità che trama in profondità per raggiungere i suoi scopi più biechi e turpi.
Il film si compone di più episodi, che corrispondono alle persone che vengono a contatto con lo smagliante e vistosissimo vestito in questione, soggiogando chi lo indossa, fino a far loro perdere ogni capacità di decisione autonoma. Strickland pesta sul pedale, accelerando sul coté satanico e decora il suo film di scenografie e spunti che ricordano i vecchi artigiani o maestri dell'horror più artigianale e riuscito: maestri italiano come Bava o Argento che, a loro volta, trovano ispirazione dai massimi autori dell'horror letterario più cupo, come Poe.
Ne scaturisce un horror sofisticatissimo e complesso, molto attento alla forma, come da tradizione per l'opera del regista, che appare talvolta un po' fine a se stesso (l'invettiva contro l'ansia consumistica selvaggia e famelica, al centro della prima interessante parte, rimane un po' sottotono nel suo proseguo a vantaggio del coté horror, comunque di gran classe e pregevole estetica), ma che in qualche modo rende omaggio alla migliore tradizione del genere, di cui Strickland appare promotore assieme ad altri talentuoso colleghi come la coppia cinematografica franco/belga Forzani e Cattet.
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