Regia di Walter Veltroni vedi scheda film
Da “I 400 colpi” alle quattrocento scenette, il passo sembra terribilmente breve per il velleitariamente fiabesco Veltroni, che si cimenta con la commedia infarcendo il tutto di tracimanti ed insistite citazioni cinefile, ogni scusa è buona: televisori, poster, interviste di sguincio, spezzoni di cine giornali, fino al cameo finale con un malinconico Jean Pierre Leaud.
C'è tempo, ci dice Veltroni, per crescere, imparare, innamorarsi e vivere davvero.
E non bisogna avere fretta.
Ma non bisognerebbe avere fretta neanche di immaginarsi registi, annaspando tra tematiche e questioni di ogni genere, passando dalla violenza sui minori alle convivenze gay, dalle polemiche sugli affidi alle crisi familiari.
Di fondo un road movie generazionale dove Fresi (quarantenne irrequieto e sensibile - come lavoro fa l'osservatore di arcobaleni per conto del CNR ed il manutentore di uno specchio a Viganella, nella Val d'Ossola, che riflette luce solare sul paese al buio per circa tre mesi l'anno, ed esiste davvero! -), scopre che il padre, mai conosciuto e dal quale è stato abbandonato subito dopo la sua nascita, ha un figlio tredicenne (stoccafisso imborghesito precocemente e pure juventino - come Veltroni -) rimasto ora orfano.
Una sentenza di tribunale lo elegge ora unico, e ben remunerato, tutore legittimo, ma inizialmente
- anche sobillato dalla moglie che coglie l'affare - non è per nulla entusiasta di accettare l'offerta.
I due “fratelli” vedranno convergere le loro esistenze, prospettate da subito (in una delle scenette tirate per i capelli, in Tribunale), come inconciliabili.
Ma affinità ed affetto fraterno vedranno presto la luce, e fin troppo repentinamente..
Il film viaggia ad intermittenza, alternando intramezzi surreali (il vigile, il banchiere, la mamma svampita) ad una parvenza di storia lineare dove anche l'incontro della cantante similGiorgia, Simona Molinari e relativa figlia, sembra solo voler risolvere a tarallucci e vino beghe molto più contorte.
Quattro essenze disordinate in cerca di quiete, immerse in un pout pourri di eccessivo ed arruffato strafare, dai paesaggi da cartolina ai continui “ma che davero” a rendere tutto folcloristico e forzato.
Non mancano le buone intenzioni ma tutto è slegato e frettoloso, come se Alberto Angela passasse di botto da Pompei alla telecronaca di una Finale di Champions.
Di sicuro salvo il pallone lanciato in aria e che sembra non cadere più, metafora delicata di quel “c'è tempo” per crescere e maturare. Ma davvero troppo poco per promovere Veltroni.
Un film in evidente fuorigioco, quasi come quel gol di Turone di millemila anni fa...
p.s. Ultima nota per le la tonnellata di variopinte magliette e camicie in tinta che Fresi sfoggia a getto continuo, c'era un tir guardaroba che li seguiva, e non ce ne siamo accorti?!
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