Regia di Walter Veltroni vedi scheda film
Un corpulento quarantenne bonaccione e a tal punto sognatore da essersi inventato il mestiere di osservatore di arcobaleni, occupazione assai precaria che cerca di integrare con la non meno bizzarra mansione di gestire uno specchio apposto su una collina a ridosso del paesino del centro Italia in cui ha scelto di vivere, incastonato in una valle che ne oscura la presenza del sole, riportato a splendere grazie al marchingegno di sua invenzione, scopre un bel giorno che "l'inseminatore" (così egli definisce con sprezzo il padre mai conosciuto) che mise incinta la madre generandolo, è deceduto per un banale incidente domestico assieme alla sua attuale compagna.
Pertanto ora l'uomo aporende anche di avere un fratellastro di 13 anni, solo al mondo a causa della accennata disgrazia, e che pertanto lui è l'unica persona che legalmente e legittimamente ha titolo per fargli da tutore.
Considerate le cospicue sostanze della famiglia del fratellino, l'uomo viene indotto, dalla sua avida moglie precaria pure lei, ad accettare, dietro compenso, questo suo ruolo di responsabilità, salvo poi indirizzare l'orfano verso un opportuno istituto per minori, una volta intascata la somma prevista.
Nel film, strutturato come una sorta di road movie, si racconta dell'incontro tra due fratelli che appaiono più come padre e figlio, o cane e gatto, a seconda dei punti di vista: scanzonato e perditempo, inguaribile sognatore quello grande e grosso, preciso, colto, controllato e posatissimo l'altro, il giovane, impegnati in una inconsueta e del tutto particolare inversione di ruoli che li rende alla fine una coppia molto più affiatata di quanto chiunque potesse prevedere.
Parlando di Veltroni unicamente come di un regista che esordisce nel lungometraggio di narrazione, ovvero senza farci in alcun modo influenzare dal noto trascorso politico che lo ha caratterizzato sino a poco fa sopra di ogni altra attività od interesse, "C'è tempo" si presenta, già dalle prime mosse, come una commedia sentimentale sopraffatta da una esigenza incontrollata di citazionismo - soprattutto cinefilo - spesso inutile o decisamente poco opportuno, circondata da un palinsesto scenografico che se da un lato ci ricorda (come fosse necessario) quanto sia bello il Paese nei suoi luoghi più di provincia, dall'altro ci devasta con la incessante ed incontrollata insistenza di circondarsi di sfondi da cartolina tutti protesi a rifletterci l'immagine da cartolina di un territorio fiabesco che diventa già da subito un ricatto davvero difficile da sostenere.
Spiace ammettere che il micidiale, incontrollato, anzi esasperato miscuglio che ha come ingredienti di prim'ordine l'ahimè noto buonismo a profusione, le irrinunciabili scenografie da Mulino Bianco (anzi, per citare i citati, da "cornetto Algida, o Arcobaleno Solero che sia), l'avventato citazionismo cinefilo dei vari Antoine Doinel, Olmo Dalcò, sfiorando senza un vero costrutto il cinema di Zurlini ed il cinema "fisico" (e deserto) caro a Fellini (deserto ahimè come la sala che proiettava ieri sera, a prezzo ridotto, questo film con cinque spettatori presenti), finisce per creare voragini, incongruenze, imbarazzo che la doppia storia d'amore che prende i due fratelli, non fa che attizzare fino a raggiungere l'insostenibilità.
Non appare neppure troppo nascosta la circostanza che, nel descrivere la particolare personalità, sensibilità, predisposizione del bambino-automa, coltissimo, cinefilo, acuto e sensibile, ma anche fragile al punto da non essere in grado di prendere una decisione quando sottoposto ad un bivio, probabilmente il regista abbia voluto in qualche modo inserire qualche traccia o frammento autobiografici, ma non per questo meno inquietanti e, se vogliamo, da paradosso psicanalitico decisamente calcato e sopra le righe.
Per finire, ben due ciliegine sulla torta: un botta e risposta lungo quasi 10 interminabili minuti tra il nostro buontempone protagonista, e il banchiere rozzo ed ignorante, qualunquista e generalista che, come d'un tratto appare nella vicenda, attaccato maldestramente come un post-it superfluo e ridondante, e il cameo parigino di lusso (ma non meno imbarazzante), di un grande attore già ampiamente citato già ad inizio vicenda.
Spiace ammetterlo, ma C'è tempo, con i suoi svolazzi (pindarici certo, ma anche molto fisici, resi possibile grazie ad ammalianti riprese insistite offerte dall'utilizzo di quei droni ormai al servizio di qualunque appassionato anche a livello amatoriale) sbanda e sbaglia quasi ovunque (a parte qualche azzeccata scena col cinese omologabile, sempre uguale e sempre diverso, che suscita una certa simpatia), irrimediabilmente: pare di trovarsi di fronte ad una favoletta in grado di inventare un nuovo, azzardato, genere cinematografico: la fantascienza involontaria.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta