Regia di Nick Hamm vedi scheda film
Venezia 75 – Fuori concorso.
Troppe volte crediamo di sapere tutto, quando invece dietro una facciata luccicante, ordinaria o scapestrata che sia, si nascondono vicende che, per quanto si allontanano dalle apparenze, non potremmo neanche ipotizzare. Pertanto, mai dare niente per scontato, nemmeno quando sono coinvolte persone che stanno regolarmente al nostro fianco.
Così, Driven è cementificato su due personaggi double face oltre il loro volere, ma al contrario non è affatto un film con l’effetto sorpresa incorporato. Di fatto, gioca una partita a briscola scoperta, con assi nella manica che scodella sul tavolo senza anelare architetture misteriose, preferendo adottare uno spirito vivace, più congruo alle sue possibilità.
Stati Uniti, nel pieno degli anni settanta. Dopo essere stato incastrato dall’Fbi con una quantità ingente di droga, Jim Hoffman (Jason Sudeikis) è costretto a collaborare con un detective (Corey Stoll) per incastrare il suo fornitore.
Trasferitosi con l’ignara moglie Ellen (Judy Greer) in un agiato quartiere di San Diego, conosce John DeLorean (Lee Pace), un facoltoso ingegnere impegnato nel lancio di un progetto estremamente ambizioso.
I piani dell’Fbi e di John, che vede il suo impero a un passo dalla catastrofe, finiranno per incrociare la traiettoria, con Jim protagonista indiscusso.
Dici DeLorean e il pensiero vola inevitabilmente al cult Ritorno al futuro. Con tutte le distinzioni tra realtà e fantascienza, Driven ha una trama con scampoli talmente assurdi che pare uscire da una mente dotata di un’altrettanta fervida immaginazione, nonostante come caposaldo abbia una vicenda realmente accaduta.
Un aspetto positivo che il diligente Nick Hamm (Martha da legare come cult personale, di ritorno a Venezia due anni dopo l'apprezzato Il viaggio) sfrutta in chiave comedy, con un felice senso del ritmo, smarrendo un po’ di grinta ogni qualvolta debba rallentare per introdurre note – solo teoricamente - più serie.
Perciò, l’avvio è baldanzoso, con la California meridionale in evidenza, tra lusso e droga, sogni e necessità, con una generalizzata rincorsa al successo, una condizione che migliori la qualità di benessere del singolo, senza prestare la dovuta attenzione per evitare di fare il passo più lungo della gamba.
Una contingenza che produce guai in abbondanza, utilizzati tra le due sponde di Fbi e John DeLorean, con rispettivamente Corey Stoll (The strain) e Lee Pace (Halt and catch fire) in due ruoli per loro atipici e fortemente caratterizzati, per sfogare il talento comico di Jason Sudeikis.
Quest’ultimo, disponendo di un soggetto quadrato nel quale dimenarsi, può scatenare la sua vis comica, anche fisica con ricorso a smorfie e gestualità prominente, fino a marcare profondamente tutto il film, che sceglie saggiamente di consegnargli le chiavi del progetto.
Per un biopic che in linea di principio avrebbe un impianto canonico, è un’opzione salvifica, che gli permette di narrare una tipica storia americana senza eccessivi appiattimenti o ruoli manichei (ad esempio, non c’è un cattivo da sconfiggere), con un dinamismo effervescente e singoli frammenti a dir poco spassosi.
Un esempio di cinema alimentare costituito con praticità: abbastanza divertente, onesto nell’impostazione e con qualche lacuna endemica a frenarne lo slancio.
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