Una foresta
Quest’opera pur essendo sicuramente accessibile a un vasto numero di spettatori, richiede la nostra disponibilità ad accogliere un linguaggio nuovo, talvolta un po’ criptico, un piccolo sforzo interpretativo favorito da qualche indizio che il regista dissemina a cominciare dall’incipit: la dedica al popolo Rohingya, ovvero agli uomini, alle donne, ai bambini in fuga dal Myammar (Birmania) per sfuggire alla “pulizia etnica” di cui sono vittime designate, diversi, per appartenenza religiosa, dagli intolleranti che li vogliono distruggere.
Spesso I Rohingya attraversano a nuoto un breve tratto del Pacifico, fra mille insidie e a costo di migliaia di perdite, per raggiungere le baie più nascoste della costa tailandese, in cerca di rifugio, infrattandosi fra le liane della foresta paludosa che si affaccia sulla costa.
La foresta è al centro della narrazione del film, non solo perché è il passaggio obbligato per arrivare ai centri abitati, ma anche perché lì trovano sepoltura le vittime dell’ esodo straziante, che hanno visto interrompersi sogni e speranze di riscatto, ma che ora riappaiono sotto l’aspetto di danzanti punti luminosi e colorati, probabile significante della vitalità spezzata ancora in grado di manifestarsi nell’oscurità boscosa, fra stagni e mangrovie.
Qui, un giovane sui vent’anni (Abhisit Hama) gravemente ferito e muto è ritrovato da un biondo pescatore senza nome (Wanlop Rungkumjad) che se ne prende cura e infine lo guarisce e lo protegge, accogliendolo nella propria povera baracca di legno e dandogli il nome di un popolare cantante locale: Thongchai.
Thongchai segue ora, come un’ ombra, il proprio soccorritore: da lui apprende a vivere, a muoversi, a lavorare, ad apprezzare il cibo. Ha, inoltre, un presente e un nome; potrebbe forse avere un futuro…
L’improvvisa scomparsa del suo biondo compagno, che lo aveva messo al corrente dell’abbandono dell’amata propria moglie Saijai, coincide misteriosamente con l’inatteso ritorno della donna che se n’era andata; sarebbe stata lei ora a prendersi cura di Thongchai, ad assisterlo, a procurargli il cibo, a farlo diventare bello e biondo!
Le sorprese non finiscono qui, ma non dirò altro, volendo evitare qualsiasi ulteriore anticipazione.
Il film procede col suo tono favolistico, nell’alternarsi delle scomparse e degli improvvisi ritorni, per presentarci, alla fine, il grande cetaceo da cui prende il titolo: Manta Ray, ovvero l’animale che ha imparato con pazienza ad attendere il momento in cui potrà danzare con grande eleganza nelle acque, avendo evitato i pericoli e i predatori, mimetizzato e appiattito sulla sabbia dei fondali oceanici: potente e insieme leggiadra metafora del ciclo inarrestabile della vita di ogni creatura, legata misteriosamente al dolore e alla morte, contro la quale le difese non possono che essere provvisorie.
Se è vero che nell’insieme la visione di questa pellicola lascia l’impressione di una certa incompiutezza, come se il regista volesse affidare a noi spettatori l’impresa di completare il film con le associazioni che suscita l’indubbio fascino delle immagini misteriose e piene di grazia, è altrettanto vero che usciamo da questa visione continuando a ripensarci e a cercare ogni possibile interpretazione, ciò che non sempre avviene dopo aver visto altri film, forse più coerenti, ma privi del magico incanto di questo.
Da vedere, con l’augurio che le prossime opere di Phuttiphong Aroonpheng mantengano e sviluppino le promesse di questa prima performance.
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