Regia di Gaston Solnicki vedi scheda film
L'amico Hans è morto. È il momento giusto per andarlo a cercare.
La morte del mio amico più fiammeggiante. Un motivo sufficiente per viaggiare dall’Argentina a Vienna, per visitare i luoghi che frequentava Hans Hurch, anima inquieta in un corpo abitudinario, attaccato in modo maniacale ai suoi riti, alle tazze col logo della sua caffetteria preferita, a quel completo scuro sempre uguale, indossato per anni fino a renderlo indecentemente logoro. Gastón Solnicki insegue le tracce di quella routine come un sognatore alla disperata ricerca di una banale ripetitività, che confermi la verità dei sentimenti, il peso schiacciante del dolore e dell’amore che continua, ritmicamente, a premere verso la terra. Il suo vagabondaggio attraverso le antiche glorie della capitale austriaca – le sue sale da concerto, le sue pasticcerie, i suoi monumenti e musei – è un volo radente senza meta, che si posa, di tanto, in tanto, per trovare pace inciampando in un nuovo indizio: un dettaglio rivelatore che confermi come tutto era bello, eppure doveva finire. Non è facile mettere le ali alla fantasia, quando è triste e spaesata: non è comune vederla così impudentemente sottomessa ad una realtà che non conosce, dentro la quale si muove imbarazzata, e della quale si sente umilmente schiava. L’immaginazione perde allora la sua spavalda levità, di fronte ad una concretezza che, per una volta, sfodera un mistero più grande e perverso di ogni delirio romantico, di ogni poetica follia. Il volto arcano del mondo si manifesta in un sussurro, per inseguire il quale la corsa si deve lasciare trasportare dal flebile vento del pensiero incompiuto, del desiderio appena accennato. La visionarietà si fa attutire da una sordina che appanna i colori del suo musicale arcobaleno: Hans aveva dentro di sé un universo intero, un coro di mille percezioni, ma di queste non è rimasto che un ricordo inventato, ipotizzato, vagheggiato, ricostruito a partire da oggetti smarriti e poi ricomparsi. Il collage della memoria rimette a posto i suoi pezzi, ma è ormai troppo tardi per insufflare, in quella composizione, l’alito vitale del senso. Gastón continua a guardarsi intorno, ad impadronirsi delle cose abbandonate, per cogliere i segni di una presenza svanita, che ha portato con sé tutte le spiegazioni. La storia è quella di una ricerca pura e semplice, scarna e senza sussulti, priva della gustosa polpa della scoperta, della gioia di chi trova un tesoro. Hans rivive solo nel momento in cui qualcuno chiede di lui, o pronuncia una domanda che avrebbe formulato lui, ma poi sprofonda di nuovo nell’ignoto: ritorna nell’oscuro ai margini del quale si può camminare, ma che non si può capire. Si resta sul bordo, a fissare un cratere che emette timidi lapilli del passato. Lo spettacolo è un nugolo di lucine, di singole molecole di vita residua che non formano alcuna figura: il racconto si accontenta delle loro parole sommesse, ma abbastanza autonome e mature per diventare piccole, curiose certezze.
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