Regia di Frederick Wiseman vedi scheda film
È l’unico Yasujiro Ozu possibile oggi, con buona pace di Kore-eda. Parliamo di Frederick Wiseman, che con Monrovia, Indiana gira un altro, l’ennesimo, dei suoi capolavori. Un altro lavoro di miracoloso découpage post-produttivo, in cui si consuma nuovamente il più puro miracolo della costruzione della logica cinematografica. I film di Wiseman riescono sempre a riproporre una situazione reale con una successione di immagini montate inesperibili nel reale con quel ritmo preciso e impossibile, e che dànno un nuovo senso – analitico, antropologico, umanista – a ciò che viene contemplato dal regista, che rimane sempre, dal canto suo, discreto, distante ma mai cinico. In Monrovia il fatto di poter realizzare una sorta di sommario del suo stesso cinema, che poi è un sommario delle grandi istituzioni sociali americane (dall’high school alla gym, dall’hospital – per cani – al welfare), rende l’esperienza della visione del film una sorta di conciliazione mistica dei sensi. Come al solito, Wiseman cammina per le strade e per le campagne, nell’environment prescelto: ogni stacco di montaggio da un piano a un altro, a meno che non stia seguendo un dialogo, è un ellissi che ci riporta allo spostamento fisico dell’uomo-regista da un luogo all’altro. Ed è dunque percepibile il gesto artistico direttamente e immanentemente sulla pellicola. È uno di quei sottovalutati miracoli che rendono il Cinema catartico.
E l’utilizzo della musica (come con la Darling Conversation di High School o la marcetta di Katy Perry in In Jackson Heights) è l’ingrediente finale per l’armonia perfetta di un film perfetto.
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