Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film
Il nichilismo assoluto dei fratelli Coen non salva nemmeno il Cinema. Ne è chiara testimonianza The Ballad of Buster Scruggs, deforme antologia western che non si limita a decostruire i dettami di un genere, ma si spinge oltre, ad eliminare gli appigli emotivi e narrativi dello spettatore trasformando quella che doveva essere una serie tv in un film squinternato e dai continui scarti di tono, pieno dei grotteschi coups de theatre cui i Coen ci hanno abituato da sempre e ricco di un umorismo macabro che mischia splatter, ipertrofia e stilizzazione. Eppure non è un film che risulta comodo per il coeniano fondamentalista: la bislacca ballata dei due fratelli è una nuova declinazione di ciò che i Coen hanno sempre avuto più scomodo da dire, anche a chi pensa di averli sempre capiti. Ispirandosi al terzo episodio - probabilmente il più teoricamente esplicito del film - si potrebbe dire che per i Coen la vita è la storia mitologica raccontata in loop da un uomo senza braccia e senza gambe davanti a un pubblico di cowboy analfabeti.
Il film si viene perfettamente a configurare in un ecosistema netflixiano che con il cinema e con la tv del bingewatching continua a riflettere sugli archetipi della messa in scena nei termini della percezione spettatoriale: in questo caso, i Coen usano l'antologia per spezzare in maniera urticante o un ritmo o un'apparenza di costruzione drammaturgica; lo stesso coup de théatre pulp, che nei primi due episodi sembra uno scherzetto di poco conto, diventa strutturale e teorico proprio negli ultimi 4 racconti. L'ultimo episodio, con un dialogo che sembra preso dal Posto delle fragole di Bergman ma nella scenografia della prima ora del tarantiniano Hateful Eight, è una delle vette dell'esistenzialismo coeniano di tutti i tempi, con quel lento carrello di ingresso nel saloon e quella scala verso un mistero bianco.
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