Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film
I Coen, si sa, amano mettere mano ai generi, giocare con gli stereotipi, riprenderne moduli e figure simboliche, per ricontestualizzare, risemantizzare e ricollocare nel panorama linguistico contemporaneo le radici dell’immaginario americano. Con questa interessante operazione prodotta da Annapurna Television per Netflix, e che avrebbe dovuto essere una serie tv antologica, i Coen tornano al western dopo il buon risultato ottenuto con True Grit (2010) e tra episodi tra loro diversi, dal parodico al western al weird, ridefiniscono ulteriormente il genere classico americano.
Senza dover analizzare ogni singolo episodio, sei in tutto, il film va guardato nel suo insieme. Si possono rintracciare elementi in comune che organizzano con coerenza autoriale l’intera pellicola. Su tutti, il paesaggio. Fin dal primo episodio, La ballata di Buster Scruggs che dà titolo al film, i Coen, ognuno nel campo che gli compete, evidenziano l’elemento paesaggistico con forza evocativa per non dimenticare quanto sia importante per il genere in termini non solo estetici, ma anche dialettici. Grandi praterie, canyon suggestivi, deserti inospitali e grandi foreste vengono rappresentate come l’unico scenario possibile delle vicende americane. Uno scenario che parla da solo, che evoca l’origine, che annulla la modernità e funge da testimone impassibile dell’odissea dell’uomo contemporaneo.
Inoltre, gli episodi sono legati tra loro dalla morte. Va da sé che in un western muore sempre qualcuno, ma quando su sei episodi in ben cinque muore il protagonista significa che quel personaggio e la sua morte hanno un significato preciso nell’economia dell’intera antologia. Tra tutti si salva solo Tom Waits, in uno degli episodi più belli. Un significato quindi, rintracciabile nella vena satirica e ironica dei Coen che con una mano tirano le corde del black humor e con l’altra quelle della tragicommedia.
Il migliore degli episodi, per quanto mi riguarda, è Near Algodones che evoca ambienti e inquadrature di Sergio Leone e dove giganteggia un ottimo James Franco. Non solo l’attore di Palo Alto conferma, come se ce ne fosse stato bisogno, la sua bravura attoriale ricamata sul gigionismo e lo sprezzo del gesto attorico, ma stupisce la sua perfetta presenza scenica in un film western, la sua aderenza perfetta al puro westerner. In qualche posa si può scorgere in lui qualcosa di Henry Fonda.
Infine, se tralasciamo l’ironia e l’umore grottesco con cui i Coen godono a infarcire i loro film, un elemento linguisticamente interessante e ravvisabile in ogni episodio, e che per diversi critici è anche un aspetto negativo del film, è la tediosità del ritmo narrativo. Una linearità emotiva, senza grandi sussulti, se non qua e là, che sembrerebbe aver svelato la stanchezza autoriale dei fratelli cineasti. In realtà, credo che i Coen abbiano soltanto e intelligentemente tradotto in immagini il ritmo nostalgico e al tempo stesso giocoso e mortifero di una ballata. Con cui hanno giustamente intitolato i sei episodi qui raccolti.
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