Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film
Con The Ballad of Buster Scruggs i fratelli Ethan e Joen Coen si presentano in concorso al Festival di Venezia a un anno di distanza dalla sceneggiatura di Suburbicon. La prima stitica sinossi parla a ragion veduta di sei racconti western che, in un primo tempo, dovevano vedere la luce in una serie di sei episodi che i registi avrebbero dovuto realizzare per la piattaforma Netflix. Pur senza addentrarci troppo in sentieri che non conosciamo legati alla produzione, la serie è diventato un (lunghetto) film a episodi che ha come filo conduttore l’ambientazione. I sei racconti differiscono infatti per atmosfere e clima, risultando spesso scollegati tra di loro o, ahimé, pretestuosi. A legarli è la scelta visiva di sfogliare le pagine di un libro, un espediente che fa pensare più a una puntata del telefilm La casa nella prateria che a un lungometraggio milionario.
Ma cosa raccontano gli episodi? Il primo, The Ballad of Buster Struggs, ha al centro eponimo pistolero canterino che, con spocchia, spavalderia e il cavallo Dan, gira tra i canyon a seminar morte come se nulla fosse: finirà vittima del suo stesso modo di fare e volerà in cielo a mo’ di angelo dopo aver parlato tutto il tempo direttamente con il pubblico. Il secondo, Near Algodones, racconta le gesta di un aspirante rapinatore di banche che la sorte avversa vuole che finisca impiccato per ben due volte; il terzo, Meal Ticket, assume invece atmosfere da fiaba gotica e racconta di due ambulanti che, vagano di villaggio in villaggio, per mettere in scena il loro (triste) spettacolo; il quarto, All Gold Canyon, è incentrato sull’avarizia di un vecchio cercatore d’oro; il quinto, The Gal Who Got Rattled, ripercorre il viaggio di una giovanissima promessa sposa che incontra amore e morte durante la sua ultima carovana; il sesto, The Mortal Remains, vede infine viaggiare insieme su una carrozza un’anziana dama con un gruppo di quattro sconosciuti per una corsa che si prospetta verso un altro mondo.
La natura episodica del film, purtroppo, finisce con l’influire negativamente sul progetto. Sulla carta, ogni storia ha un motivo per essere interessante, soprattutto per chi ama il western e i suoi mille sottogeneri. La diversa durata degli episodi e i cambiamenti repentini di umore portano a una facile distrazione che, fortunatamente, si placa nei racconti più lunghi, in grado di far assaporare tutta la magia che l’umorismo nero dei Coen e gli sconfinati paesaggi occidentali sanno regalare. Piace invece il continuo giocare dei due fratelli che le declinazioni del western: abbiamo un musical con Tim Blake Nelson nei panni del fuorilegge canterino; una farsa con il ladro James Franco; un racconto gotico con tanto di freak sostituito da una gallina dall’impresario Liam Neeson; una commedia grottesca con la panoramica caccia all’oro portata avanti da un Tom Waits, che spaventa anche la natura più selvaggia; un melodramma con tanto di finale tragico con Zoe Kazan e le sue speranze di vita migliore in Oregon (non tutte sono Rossella O’Hara); e un horror d’atmosfera con Tyne Daly dama in una carrozza diretta nella nebbia e guidata da un vettorino caronte.
L’omaggio dei Coen al western diventa tale però nelle panoramiche, nelle ambientazioni e nella costruzione dei prototipi condivisi del genere. Per dirla in maniera spicciola, il loro western è figlio di John Wayne, di Sergio Leone e dei tanti film che Spagna e Italia hanno prodotto negli anni Settanta. I vari Sabata, Ringo, Gringo e Nessuno passano dalle mani dei Coen e vengono ora esacerbati ora destrutturati prima di essere riassemblati. A differenza di Tarantino che calca la mano nello splatter e anela a riscrivere il genere, i Coen appaiono più tradizionalisti: gli indiani, ad esempio, sono sempre i cattivi della storia, nei saloon si gioca a poker, le banche sono sempre isolate, gli storpi un peso e i jack russell insopportabili. Con buona pace del politically correct e dell'anarchia che i due registi hanno paventato in conferenza stampa.
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