Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Ritratto sinistro di provincia italica dei primi anni cinquanta. Gli ispirati fratelli Avati chiudono il cerchio e la botola di un discorso e di un cinema, di genere. A parte alcuni rari exploit non c’è rimasto più nessuno capace di pensare, scrivere e mettere in immagini il genere. Con i tratti autoriali che lo hanno sempre contraddistinto Pupi (con l’imprescindibile Antonio) firma un’opera, una favola nera che affonda le sue radici nell’infanzia e nel cattolicesimo, quello che era superstizione e dottrina dogmatica manichea legata a doppio filo con la politica Democrazia Cristiana.
Il funzionario Furio Momentè e il piccolo Carlo Mongiorgi si somigliano, soprattutto nel finale: definitivo, politico, metaforico. Molto anni settanta nella non chiarezza di alcuni punti/inverosimiglianze ma ciò ne accentua il carattere gotico-padano caro e dal glorioso passato del regista. Oltre le atmosfere, i colori cupi e perniciosi, i quadri futuristi alle pareti (ottimi Bastelli e Pannuti) quello che funziona e si staglia decisivo è la galleria di volti e personaggi. Determinante ma non solo. Dai ragazzini dolci come Paolino, all’ambiguo protagonista Carlo, all’Emilio dall’aspetto horror ogni volta che appare e dai tratti “verrici”. I buchi di sceneggiatura “giustificati” dal genere fantastico di comodo, talvolta, sono compensati dagli attori avatiani di vecchio e nuovo vaglio, taluni icone assolute del suo mondo cinematografico: in primis Lino Capolicchio e Gianni Cavina protagonisti di tante pellicole ma qui soprattutto rievocazioni del cult “La casa dalle finestre che ridono”. Il secondo, nei panni del sagrestano Gino, è straordinario. Il redivivo Massimo Bonetti, il nevrotico per eccellenza Alessandro Haber in una breve ma folgorante apparizione. Chiara Sani, Andrea Roncato e Fabio Ferrari, però la vera sorpresa è l’inedita Chiara Caselli, inquietante dama dalla veletta e nome dark Clara Vestri Musy.
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