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Il Signor Diavolo

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Il Signor Diavolo

di alan smithee
7 stelle

Nell'Italia della provincia, precisamente quella del Nord Est dei primi anni '50, un fatto di cronaca nera tremendo ed efferato scuote la sensibilità degli abitanti delle zone adiacenti alla laguna veneziana: un ragazzo quattordicenne si proclama l'assassino di un coetaneo dal volto deturpato, ucciso con un colpo di fionda finito a perforare l'occhio. Un personaggio strano, deriso dai coetanei adolescenti e per questo pieno di rancori covati in solitudine, già oggetto in passato di oscure dicerie riguardo alla morte della sorellina adottiva neonata.

Secondo la più diffusa credenza popolare, che relega ad un preciso intervento diabolico la sorte di ogni essere vivente non conforme alla norma, il ragazzo, frutto di un parto dai macabri connotati rituali molto vicini a pratiche esoteriche, si rese responsabile della morte per sbranamento della sorellina direttamente dalla culla, affondando i suoi denti disumani sull'indifeso corpo della piccola.

In viaggio verso Venezia, il giovane ispettore del Ministero di Grazie e Giustizia Furio Momenté, incaricato di organizzare una difesa d'ufficio del ragazzo, si studia i particolari terrificanti del caso (escamotage narrativo attuato tramite flashback indovinati e scrupolosi, che consentono a noi spettatori di apprendere i dettagli assieme a quest'ultimo).

La sua indagine lo porterà ostinatamente vicino ad una verità che forse non esiste veramente, se non nella mente deviata e corrotta di un popolo remissivo e fedele ad una Chiesa a sua volta intimamente legata alle superstizioni, da cui spesso ella ne trae vantaggio tramite forme di obbedienza cieca e servile da parte della maggior parte dei fedeli.

Da un suo stesso romanzo dal titolo omonimo, Pupi Avati - grande e glorioso regista in grado di sondare meglio di quasi tutti i colleghi coetanei, e sia attraverso le commedie sentimentali di costume, che con l'horror, le pieghe contorte di usi e costumi popolari di una terra padana dura che poco concede ai suoi abitanti - torna al cinema dopo alcuni non proprio qualitativamente fortunatissimi anni - per stessa ammissione dello stesso - trascorsi a dirigere storie confezionate per il piccolo schermo.

E torna - che emozione! - con l'horror padano di cui è stato inventore e portavoce indiscusso con i suoi film cult: su tutti Balsamus, l'uomo di Satana, Tutti defunti tranne i morti, La casa dalle finestre che ridono, Zeder, ma anche un gioiello come Le strelle nel fosso, pur non propriamente horror, può in qualche modo essere legato al filone.

Il film si rivela riuscito soprattutto in forza delle potenti atmosfere padane che affondano nel pathos della tradizione più genuina e antica, degli sfondi dalla bellezza pittorica della Laguna di Venezia che le scenografie esuberanti esaltano coerentemente, delle opere architettoniche di un'Italia di provincia, povera e minimalista, ma di uno splendore da favola. Ma il film funziona anche grazie ai volti schietti e credibili degli attori e delle comparse che da sempre Avati riesce a scovare, preservando in ogni personaggio creato, quelle espressioni antiche che nelle storie del cineasta paiono rivivere e tornare con la medesima genuinità dei volti che ancora si ritrovano forse più solo nei cassetti nascosti di qualche soffitta dimenticata o negli archivi fotografici relativi ad un tempo irrimediabilmente ormai perduto e, altrimenti, senza alcuna possibilità di ritorno. 

Al di là dei giovani protagonisti, bei volti antichi pallidi ed emaciati, con occhiaie violacee su pallori lucidi da terrore a pelle, credibilmente un po' impacciati dall'inesperienza alla vita che li caratterizza, Avati sceglie saggiamente di alternare i volti noti del suo eccellente parco attori più affezionati da sempre: ed ecco, anche solo in piccole ma quasi sempre fondamentali parti, interpreti eccellenti come Lino Capolicchio, Massimo Bonetti, Gianni Cavina, Andrea Roncato, Alessandro Haber (quasi un "regalo di Natale)ai quali si aggiunge un ritorno sulle scene folgorante: quello di Chiara Caselli, qui impegnata nel ruolo controverso ed inquietante della madre del ragazzino deforme. Un'attrice, la Caselli, che personalmente apprezzo molto da sempre, e che ammiro anche e soprattutto per la capacità di essersi sempre ritagliata scelte artistiche spesso anche di livello internazionale, ma quasi sempre sfidanti, protese a privilegiare più il lato artistico, più che a puntare su indirizzi a facile consenso popolare.

La storia appare elaborata e, come capita nei film di genere usciti dalla fantasia perfettamente calata su un passato mai lontanissimo, ma quasi sempre vissuto di persona nei particolari più intimi, e ora nostalgicamente demodé, tanto caro ad Avati - legata e condizionata dalle superstizioni invadenti sorrette da una Chiesa connivente con l'ignoranza dilagante e in malafede.

Il film gioca bene le sue carte verso una soluzione che forse, come spesso capita nell'horror padano di Avati, non c'è, o che semmai si annida addentro più che ad uno o più soggetti, ad una colpevolezza generalizzata.

Più responsabilità di un atteggiamento di massa, che una colpevolezza sulle spalle di personaggi apparentemente giudicati dalle singolari circostanze come colpevoli, e resi indiziati ancor prima di un regolare processo da un giudizio sommario o dagli indizi forniti scientemente agli spettatori, quasi a renderli giudici parziali e colpevoli come la gente: personaggi, questi ultimi, devastati da orrori e da scherzi ingrati di una natura visivamente spettacolare, ma spesso ostile, dura e spietata.

Tra gli eccellenti collaboratori di Avati, riconosciamo al montaggio il nome di un affermato regista italiano specializzato in horror come è Ivan Zuccon, mentre gli effetti speciali, contenuti ma efficaci, sono nelle mani dell'abile Sergio Stivaletti

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