Regia di Shinya Tsukamoto vedi scheda film
Non stupisce che il nuovo film di Shinya Tsukamoto sia di altissimo livello, e non stupisce perché Killing è l'inevitabile evoluzione del suo Cinema, un Cinema ipercinetico e schizofrenico che ha sempre lasciato spiragli di emozioni umane fra uno stacco di montaggio e un altro, in uno sguardo o in un movimento, dai tempi di Tetsuo fino ai capolavori Kotoko e Nobi. Adesso Tsukamoto prende il samurai-movie per narrare, oltre che la lenta crescita e presa di (auto)coscienza di un giovane aspirante samurai, anche l'autocosciente decadimento di un ronin, che non è in grado di consegnare all'adepto quella fermezza che permette di uccidere senza scrupoli.
Il film di Tsukamoto porta con sé i segni di una senilità assennata, che avverte l'emotività invisibile pregnante quanto un fendente di katana. I movimenti dei personaggi e del loro sentire sono in stretta correlazione con i movimenti di camera, secchi e brutali come anche graduali e ammorbiditi a seconda delle necessità. Nonostante l'apparente allegerimento, in realtà Killing segna l'ingresso in scena, nel cinema di Tsukamoto, di un nuovo livello di lettura che appesantisce ulteriormente i personaggi così come i loro corpi e i suddetti movimenti di camera. La paura di uccidere di Ichisuke è leggibile come il timore di uccidere dei soldati malickiani di The Thin Red Line, e lo stesso Malick è citato esplicitamente nella sequenza in cui Yu, sorella di Ichisuke, apre le braccia verso il cielo al tramonto come avrebbe fatto un'Olga Kurylenko in To The Wonder. L'appesantimento del cinema di Tsukamoto sta quindi nell'aver dato forma a una nuova dimensione umana di cui negli altri suoi film si intravedevano frammenti sparsi: non solo i personaggi si parlano con voci che da diegetiche diventa extra-diegetiche, come a dare al film la sostanza di un mondo astratto di pensieri (in)espressi, ma la camera esplora questi sentori drammatici con l'empatia del movimento di camera, non rinunciando alla camera a mano ma come stabilizzandola parzialmente quando, con la conclusione del film, si capisce che la trama era soltanto il pretesto per accedere a un film di chiazze di emotività, di forme che come schegge impazzite però piangono disperate.
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