Regia di Rick Alverson vedi scheda film
Sembrerebbe una stupida coincidenza onomastica quella che accomuna i nomi di Rick Alverson e Roy Andersson, ma certe stilizzazioni e certe pose artefatte sono proprio le stesse. The Mountain, emblema teorico dell’indie-hipster statunitense di moderna concezione, gioca costruttivamente le carte della materia prima cinematografica – taglio, montaggio, ritmo, suono – per edificare la lenta evoluzione della percezione distorta e martoriata di Andy (Tye Sheridan), incapace di percepire la materialità di ciò che esiste e quasi rassegnato alla bidimensionalità di ciò che può solo guardare da lontano. La sua percezione è immediatamente trasmessa allo spettatore tramite la gestione serrata e consequenziale delle scene: ellissi jarmuschiane, controcampi negati, figure indistinguibili (proprio quelle dei due amanti che Andy guarda e non sa cosa stiano facendo). Il film si declina come una scoperta della fisicità delle cose e allo stesso tempo come la scoperta adolescenziale della sessualità: quest’ultima arriva di soppiatto tramite le grottesche pose seminude di Jeff Goldblum, ed esplode con l’ingresso in scena della giovane Hannah Gross. Intanto le figure dei personaggi, deformate da elementi disturbatori e perturbanti e accompagnate da una soundtrack di fiati ossessivi e minacciosi, implodono proprio nella coltivazione della percezione frustrata dello spettatore, laddove la disposizione analitica – “clinica” è anche più in tema – dei campi/controcampi cede il passo a continue mutue contaminazioni di elementi filmici. Per esempio, lo scatto della macchina fotografica di Andy, che, come un novello Géricault ma con la freddezza di un Serafino Gubbio operatore, fotografa ritratti di alienati, va a enfatizzare i tagli di scena con uno scatto sonoro che torna di soppiatto in altri tagli come suono extra-diegetico; elementi visti in foto, o inquadrati dentro cornici, sfondano i confini in cui sono incastrati e diventano parte della scena; momenti sospesi e agghiaccianti sembrano promettere una continua smentita del senso dell’azione e, ancora una volta, del montaggio, e poi rassegnano lo spettatore riguardo il verificarsi fuoricampo di eventi centrali, dimostrando che la narrazione, seppur presente, è esile e filiforme.
L’impiego del caraxiano Denis Lavant è infine esemplare per intendere la follia di The Mountain come una breccia di energia incastrata nel 4:3 di un’immagine castrante: l’attore viene lasciato libero di parlare inglese e francese, praticamente di fare se stesso; allo stesso tempo, però, viene incasellato, quasi imprigionato, nell’inquadratura con una precisione chirurgica che fa realmente impressione. E il suo psicopatico monologo sulla gratuità delle immagini e sulla vacuità delle rappresentazioni è realmente degno di Boy Meets Girl.
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