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Tumbbad

Regia di Rahi Anil Barve, Adesh Prasad vedi scheda film

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La recensione su Tumbbad

di Spaggy
7 stelle

Lontano nel tempo, tra fine Ottocento e primi del Novecento, si colloca Tumbbad, opera indiana dei giovani Rahi Anil Barve e Adesh Prasad, al loro debutto nel lungometraggio. La storia fantasy affonda le radici nella cultura del loro Paese e parte da una leggenda che pur non essendo vera appare verosimile. Secondo la loro tesi, la dea dell’abbondanza (colei che custodisce ricchezza e cibo) venne attaccata dal suo unico figlio, Hashtar, per avidità. Costui, appropriatosi della ricchezza, non riuscì ad agguantare il cibo grazie all’intercessione degli altri dei, finendo condannato all’oblio e alla fame eterna. La sua figura però venne richiamata da un gruppo di sacerdoti che, nei pressi delle terre di Tumbbad, ebbero l’idea di erigere un tempio in suo nome. Avvolto da costanti piogge, il tempio divenne la culla di un’antica maledizione che colse, ha colto e coglie, tutti coloro che, spinti da avidità, si addentrano nel suo ventre. Hashtar vive infatti nelle profondità di quel tempio e, distratto dalla fame, fa letteralmente arricchire coloro che riescono a liberare le monete che custodisce sotto la sua pelle, come in uno speciale marsupio. Chi dovesse invece essere attaccato dal dio, sempre in preda alla fame, vivrà in eterno come una bestia affamata e deforme. Dopo decenni, la leggenda di Hashtar torna alla luce per via della sete di ricchezza del giovanissimo Vinayak, che apprende dalla bisnonna paterna come racimolare denaro. Scendendo nelle viscere della Terra, Vinayak diviene sì ricco ma il prezzo che pagherà sarà talmente alto da richiedere a lui e alla sua prole il sacrificio più alto.

scena

Tumbbad (2018): scena

 

È interessante notare come la cinematografia indiana, quella di Bollywood per intenderci, scelga di avvicinarsi a quella hollywoodiana con una storia che sembra venuta fuori dagli sceneggiatori della Lucas Film o della Amblyn. Siamo di fronte infatti a un continuo rimando a canoni che il cinema nazionalpopolare americano ha fatto propri dalla fiaba russa: l’eroe, l’antagonista e l’oggetto del desiderio sono costantemente presenti e al contempo estranei, lontani dal mondo a cui siamo abituati. La dimensione fiabesca, in questo caso dark, serve per mettere in scena una parabola appartenente a tutte le latitudini del mondo: l’avidità comporta, per contrappasso, un alto prezzo da pagare. Le monete raccolte nulla possono di fronte al conto che il destino o la Storia presentano. Sfidare la sorte è una gara persa in partenza: la volontà degli dei sta al di sopra della ragione, sebbene Vinayak non lo capisca prima del finale. Merito dei due registi indiani è quello di sopperire alla mancanza di tecnologia degli effetti speciali con mezzi artigianali che non sfigurano di fronte alle mega produzioni d’oltreoceano, ricordandosi che prima del computer gli effetti speciali erano garantiti dal trucco e dal suono. Il loro è in qualche modo anche un omaggio all’artigianalità del cinema stesso, frutto più dall’arte di ingegnarsi che della tecnologia.

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