Regia di Hajooj Kuka vedi scheda film
Grazie ad aKasha, opera prima del giovanissimo Hajooj Kuka si vola direttamente nell’ancestrale e conflittuale realtà del Sudan, dove da anni va avanti una guerra civile che, durante la stagione delle piogge, ha una pausa. Durante i tre mesi d’estate, i giovani soldati vengono lasciati liberi dall’esercito rivoluzionario per dedicarsi alla loro esistenza e, soprattutto, vita sentimentale. Adnan è uno dei giovani liberati che, innamorandosi di Lina, dovrebbe ritornare in guerra quando il suo superiore lancia il richiamo, la cosiddetta a Kasha. Adnan è però costretto a non ubbidire agli ordini a causa di un malinteso sentimentale: ha chiamato il suo fucile, un AK47, con il nome di Nancy, una sua ex fidanzata. Considerato un eroe per aver abbattuto da solo un drone (a quanto racconta), Adnan è conteso dalle donne e ciò non può far altro che scatenare le ire di Lina, che per ripicca non gli dà la possibilità di riappropriarsi dell’arma.
La separazione da Lina e dall’AK47 porta Adnan a divenire disertore insieme al soldato Absi, che per aiutarlo nella fuga gli suggerisce di ricorrere al più antico degli escamotage della commedia dell’arte: il travestimento. L’idea scatena allora tutta una serie di fraintendimenti che condurranno Adnan verso la stregoneria africana, la formazione sentimentale, il pentimento e, soprattutto, la confessione di ciò che è veramente successo con il drone.
Realizzare una commedia di equivoci che gioca con i parallelismi tra guerra e amore non deve essere facile soprattutto se lo sfondo della vicenda è l’Africa martoriata dalla guerra civile. Il coraggiosissimo Hajooj Kuka gioca invece con le vicissitudini del suo Paese per imbastire una storia che presenta personaggi giovani molto vicini a quelli del mondo occidentalizzato. Fortunatamente, non ci sono i social media e internet ad annebbiare loro la vista e le vie di fuga sono le più semplici possibili. Nascondersi o camuffarsi, in primis. Basta a volte poco per riuscirci: un paio di scarpe alla moda, un abito femminile o una caverna (che platonicamente permetterà al suo ospite di far luce sul da farsi). La guerra ha annientato sì le terre ma non i cuori, pronti a riaprirsi con l’aiuto di una fattucchiera e di un fiore estatico, simbolo di una tradizione fortemente magica in cui realtà e magia nera si mescolano e si reinventano in continuazione. Per riappropriarsi di ciò che gli appartiene, della sua donna e del suo fucile, Adnan attraversa premi e ostacoli, affrontando anche una difficile prova finale, che lo umilierà davanti agli occhi (e alle orecchie) di tutti gli abitanti del suo villaggio.
La grazia dei dialoghi, la comicità assurda di determinate situazioni e il coraggio del regista sopperiscono ai difetti che l’opera ovviamente mostra. Troppi ingenui alcuni snodi per essere credibili, troppo voluti alcuni escamotage per uscire dall’impasse. aKasha apre però un varco dimensionale nuovo che ci fa capire come a qualsiasi latitudine, conflitto o non conflitto, i riti di passaggio, i percorsi di formazione e gli ideali in cui credere (Per cosa combattiamo? Cosa conta nella vita?) siano sempre uguali.
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