Regia di François Ozon vedi scheda film
Alexander Guérin (Melvil Paupaud) è un impiegato di banca che vive con la sua famiglia a Lione. Un giorno, scopre quasi per caso che Padre Preynat (Bernerd Verley), il prete che abusò sessualmente di lui quand’era un piccolo Scout, è ancora al suo posto, a officiare messa e ad essere circondato di ragazzini. Decide così di aprire un’indagine, ma di fronte all’atteggiamento evasivo delle istituzioni ecclesiastiche e alle promesse di giustizia del Cardinale Barbarin (François Marthouret) che rimangono sempre e solo parole, si vede costretto a chiedere complicità a chi come lui subì gli abusi sessuali del prete. La trova in Francois Debord (Denis Ménochet) ed Emmanuel Thomassin (Swann Arlaud). I tre ex Scuot sono persone molto diverse tra loro, ma insieme riescono a sensibilizzarne altre e ad aprire un procedimento legale contro Padre Preynat e le omissioni della chiesa. Il caso Preynat assume una portata molto ampia, perchè emerge che ha abusato sessualmente di più di settanta ragazzi. L'iter processuale si chiude nel marzo del 2019 e nonostante che i fatti a cui si fa riferimento siano andati tutti prescritti, il prete pedofilo viene allontanato dal clero e il Cardinale Barbarin rinviato a giudizio per i colpevoli silenzi di cui si è macchiata la chiesa cattolica di Francia.
Nel cinema di François Ozon un posto di rilievo, quasi totalizzante direi, l’hanno sempre avute l’ambientazione alto borghese e le pulsioni sessuali. Un binomio che è sempre servito all’autore francese per vestire di mistero le azioni dei protagonisti (“Gocce d’acqua su pietre roventi”, “8 donne e un mistero”, “Sotto la sabbia”, “Frantz”), per conferire delle tonalità noir al vuoto esistenziale che caratterizza le loro esistenze (“Swimming Pool”, “Potiche, la bella statuina, “Nella casa”, “Giovane e bella”).All’interno di questa filmografia, Ozon innesta “Grazie a Dio” (premiato con l'Orso d'argento a Berlino), un film tratto dalla storia di Padre Preynat, un prete pedofilo che ha abusato sessualmente di circa settanta ragazzi e che e stato "spretato" con procedimento legale nel marzo del 2019. Il sesso c’entra sempre, ma questa volta non serve a vestire di una seducente ambiguità di senso lo sviluppo narrativo del film, ma è l’oggetto che serve a definire il dramma esistenziale di chi ne ha subito gli effetti perversi. In questo film ci sono delle assonanze chiare con “Il caso Spotlight” di Thomas McCarthy. Sia per il cancro della pedofilia all’interno della chiesa, che una volta emerso allarga a macchia d’olio i suoi tentacoli malefici, sia per il clima omertoso e corporativo che aleggia nelle istituzioni ecclesiastiche. Ma mentre il film di McCarthy adotta il punto di vista dei giornalisti che seguono l’indagine, e come tale ne sposa il ritmo da inchiesta imposto dal lavoro che fanno, “Grazie a Dio”, invece, tende ad anestetizza ogni svolta narrativa e slancio “politico” nel totale coinvolgimento emotivo dei protagonisti.
Ciò che è da apprezzare del film di François Ozon è certamente il coraggio dimostrato nel portare su schermo una storia “scandalosa” che ha coinvolto le alte sfere del clero francese. E di farlo senza veli, esplicitando tutte le parole che servono per spiegare la perversione pedofila di un prete nei confronti di giovani scout. Padre Preynat non nega mai le accuse che gli vengono rivolte dai suoi ex allievi. E la nitidezza con cui Ozon mostra questo aspetto rappresenta la cosa migliore del film, soprattutto perché fa risaltare per contrasto l’atteggiamento oscurantista della chiesa cattolica, che ha consentito ad un prete pedofilo di rimanere al suo posto e fare le stesse identiche cose per diversi decenni ancora. C’è poi il tema del perdono, che la chiesa vorrebbe praticare come movente spirituale da tenere sempre sotto la sua rigida giurisdizione, ma che le vittime non sono pronte a concedere per il male concreto che hanno subito e di cui portano ancora i segni. Un male che “grazie a Dio” non è andato mai prescritto nel cuore delle vittime, diversamente dall’auspicio del Cardinale Barbarin, che usando improvvidamente quella frase per riferirsi ai tempi "burocratici" dei procedimenti di legge, avrebbe voluto salvaguardare l'impunità della chiesa dalle sue colpe terrene. Parole reali, sfuggite incautamente all'alto prelato durante una conferenza stampa, che nella finzione cinematografica denunciano con una forza rinnovata la loro arrogante "peccaminosità".
Ma non bastano questi elementi per innalzarlo al rango di ottimo cinema di denuncia, per riscattarlo da una pesantezza di contenuti che non trova mai la sua completa ragion d’essere in adeguate soluzioni narrative. “Grazie a Dio” non è un brutto film, ma sembra proseguire all’insegna del “vorrei ma non posso”, con i personaggi intenti a palleggiarsi il ruolo di pietra angolare dell’inchiesta, ognuno con un suo peso interiore che esplode solo nell’evidenza dello scandalo, mai in un’appropriata rappresentazione della complessità psicologica del dramma. Detto altrimenti, l’andamento narrativo è totalmente privato degli attributi “poetici” che avrebbero dovuto caratterizzarlo. Come film che racconta di un’inchiesta che ha coinvolto le istituzioni ecclesiastiche, manca del ritmo necessario per fare di una denuncia fatta per immagini un momento di riflessione che colpisce nel segno. Come film che ci porta a conoscere il vissuto di alcune vittime degli abusi sessuali del prete, manca di quella ricerca introspettiva dei personaggi capace di far emergere la più ampia complessità del problema dall’evidenza di casi particolari. Il risultato, a mio avviso, è che il film rimane nel guado, interessante ma irrisolto, elegante dal punto di vista formale ma farraginoso nel dispiegamento dei suoi contenuti narrativi, ricco nell’architettura della messinscena ma privo degl’input necessari per farla definitivamente decollare.
Il tema della pedofilia esige serietà d’approccio e assenza di ogni eccesso spettacolarizzante. Ma se si adotta come matrice narrativa il percorso di indagine che porta fino al procedimento giudiziario istruito contro la chiesa, allora è lecito aspettarsi un equilibrio più ricercato tra il momento istruttorio e quello accusatorio, tra il ritmo da imprimere ad un’indagine sulla pedofilia e le ferite che ha prodotto sulle persone. “Grazie a Dio” si pone come un prodotto costruito per farsi piacere, ma che, a mio avviso, rimane succube della sua raffinata alterigia, finendo per aderire poco al dramma che racconta e al valore testamentario che vorrebbe far emergere. Rimandato.
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