Regia di François Ozon vedi scheda film
Dall’individuo alla società, Grazie a Dio è uno spaccato lucido, sobrio e severo di un mondo segnato da tare di vario genere: egoismo, indifferenza, perbenismo, pregiudizio, violenza.
Premiato al Festival di Berlino 2019 dove ha vinto l’Orso d’Argento – Gran Premio della Giuria, Grazie a Dio di Francois Ozon è teso come un thriller e luttuoso come una tragedia di cui ha lo sviluppo circolare dal prologo all’epilogo, passando attraverso una serie di peripezie che realizzano il necessario crescendo emozionale e dovrebbero approdare alla catarsi.
Invece stavolta si viene freddamente lasciati su didascalie di coda che non ci raccontano nulla di buono, parlano di colpevoli impuniti o colpiti da sanzioni decisamente inadeguate alla gravità del reato.
Immaginiamo, di conseguenza, le vittime devastate per il resto della loro vita.Il massimo risultato ottenuto, dopo anni di vicende giudiziarie e polveroni mediatici, è stato aver portato da venti a trenta anni i termini per la caduta in prescrizione del reato di pedofilia.
Perché di questo si tratta, aver abusato di bambini, aver condizionato la loro vita e preparato la strada a esiti di vario genere, tra cui il suicidio.
Quel che è stato e stato e, GRAZIE A DIO, non ci si pensa più.
Il cardinale Barbarin (Francois Marthouret), in conferenza stampa, si lascia sfuggire un bel ”Grazie a Dio è intervenuta la prescrizione”, una delle espressioni, GRAZIE A DIO, più usate e abusate dal genere umano, a dimostrazione di quanto variegato sia il panorama delle cose per cui ogni giorno ringraziamo l’Onnipotente.
Il reo confesso è un prete, don Preynat (Bernard Verley), uno che neanche si prende il disturbo di nascondere, minimizzare e soprattutto chiedere perdono.
Le gerarchie ecclesiastiche sapevano da tempo e hanno taciuto, don Preynat ha continuato a circondarsi di stuoli di boy scout finchè è stato giovane, chierichetti ora che è vecchio, e l’ultimo Papa, che tuona dal Vaticano contro i preti pedofili, ha ottenuto solo quel misero risultato descritto. Trenta anni invece di venti.
Ozon torna ad un caso degli anni novanta del secolo scorso nella diocesi di Lione, in una Francia che sembra aver dimenticato il glorioso passato illuminista e prega devota e compatta in chiese scintillanti d’oro e profumate d’incenso.
I nomi delle vittime sono stati modificati, quelli dei colpevoli no, don Preynat il pedofilo, anzi, il pedosessuale, come preferisce il cardinale Barbarin che discetta dottamente sull'etimo delle parole con l'allibito Alexandre, una delle vittime, torna alla ribalta dopo vent’anni di oblio e con lui chi, come il cardinale dalle parole vellutate, ha insabbiato perchè, sì, la Chiesa è guida e maestra, mai che schizzi di fango possano imbrattare la sua candida veste!
E poiché tra rinvii e gradi di giudizio paradossalmente il processo è ancora in corso, i legali del vecchio sacerdote hanno chiesto che il film non venisse proiettato nelle sale pubbliche per non violare il principio della presunzione d’innocenza.
Ma , GRAZIE A DIO, è ancora possibile talvolta credere nella libertà d’espressione e di creazione, e così il film ha avuto il suo corso e i suoi premi.
Ozon non vuole però ripercorrere la strada del film denuncia, anche se spesso i risultati superano le intenzioni e il film ha una carica forte di condanna morale .
"Non volevo fare un film sul cattolicesimo e sulla pedofilia, ma piuttosto sulla fragilita' maschile. Una cosa che si vede poco al cinema" ha detto il regista.
Non è dunque un caso Spotlight all’europea, né l' affondo su un grave reato e omissioni successive che hanno pesanti ripercussioni sull’individuo e sulla società . La denuncia c’è, è inevitabile, ma è la fisionomia dei personaggi a reggere la tensione, la vita che si sono costruiti dopo la triste adolescenza piena di ombre, ricordi, angosce.
Ozon si muove con garbo ed eleganza, sa far parlare questi uomini con una chiarezza esplicita sui dettagli della violenza mai sperimentata prima sullo schermo.
E’ lo stile di Ozon, abile tessitore di psicologie messe a nudo, occhio che guarda il lato nascosto di uomini e donne e ne scompiglia la normalità apparente al punto che le parole si liberano.
“La parola liberata” è infatti il nome del sito web che i protagonisti creano per raccogliere testimonianze e passare il caso alla giustizia civile. Le vite di Alexandre, François, Emmanuel e altri più sfumati co-protagonisti, entrano in successione sullo schermo, tirate da un filo comune, il danno subito.Questi uomini hanno vissuto, lavorato, amato, procreato, ma nulla dentro di loro è andato in prescrizione della violenza subita.
Tremenda la frase di uno di loro: “Quando faccio l’amore siamo in tre, io, mia moglie e Preynat”.
E’ in questa cappa di orrore ormai sedimentata fin dall’adolescenza il nodo drammatico, ad alcuni ha impedito una vita serena, ad altri ha imposto maschere, a tutti ha rovinato l’esistenza.
Uomini fragili più del normale, più esposti ad alterazioni dell’equilibrio psicofisico, spesso aggrediti da ritorni d’immagine, un vissuto che non si dimentica cammina con loro e stabilisce anche la qualità dei rapporti con gli altri, la famiglia in primis.
Dall’individuo alla società, Grazie a Dio è uno spaccato lucido, sobrio e severo di un mondo segnato da tare di vario genere: egoismo, indifferenza, perbenismo, pregiudizio, violenza.
A pagare stavolta sono i bambini, esercitare fascino su di loro è facile, usare violenza altrettanto. Le loro strade proseguiranno comunque, anche infiorate da successo, come Alexandre, manager al top che sforna cinque figli, li battezza, li cresima, li porta a messa ogni domenica, ma alla domanda finale del figlio più grande: “Papà, ma tu credi ancora in Dio?” non risponde.
www.paoladigiuseppe.it
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