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Il diavolo probabilmente

Regia di Robert Bresson vedi scheda film

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La recensione su Il diavolo probabilmente

di ed wood
8 stelle

E’ forse l’opera più sfaccettata, composita, multiforme, stratificata di Robert Bresson. Dopo aver chiarito una volta per tutto il nocciolo della sua poetica nel definitivo e purissimo “Mouchette”, che infatti è assieme a “Pickpocket” il film bressoniano più compatto ed influente sui suoi tanti, sparsi seguaci, al grande cineasta-asceta francese non restò che svariare, sperimentare, amplificare e ridefinire la propria idea di mondo e di cinema, adattandola alla comprensione di mondi tanto lontani quanto il Medioevo leggendario di “Lancillotto e Ginevra” e la gioventù arrabbiata e militante del “Diavolo probabilmente”. Quest’ultimo film non ha entusiasmato particolarmente la critica, che forse ha trovato goffo e poco attendibile l’approccio del vecchio Maestro ad una realtà così complessa e sfuggente come quella dei giovani degli anni 70. E’ un film in cui Bresson fa i conti con le istanze rivoluzionarie (anche eversive/terroristiche, come testimonia il dibattito ad inizio film), la questione ecologista, il rinnovamento della dottrina cattolica, la psicanalisi, la droga ed altre tematiche in qualche modo politiche e sociologiche. In verità, questa incursione di Bresson nell’attualità (dell’epoca) serve solo al regista per rendere più oggettivo e concreto il consueto excursus nei mille modi in cui il Male si manifesta, impercettibilmente, fra le pieghe dei più banali gesti quotidiani, delle azioni compiute od omesse, dei dettagli che il raffinato editing bressoniano nasconde o rivela. La presenza di immagini di repertorio a tema ecologico (mari inquinati dal petrolio, foche bastonate, alberi abbattuti, persone ridotte ad esseri sub-umani a causa di una sostanza velenosa), alternate ad una complessa ma tipica vicenda relazionale (due ragazze, una sensibile l’altra più cinica, si contendono un ragazzo apatico; attorno a loro piccole storie di amicizia sincera o di gelido opportunismo), conferisce all’opera un tono quasi asettico e “brechtiano”, che ricorda paradossalmente alcuni film di Godard. Non deve sorprendere questo accostamento: se infatti la nouvelle vague si poneva in contrasto ideologico col cinema di Bresson, parimenti ne fu dichiaratamente influenzata. La struttura sfilacciata con cui si evolve la vicenda ricorda un po’ “Balthazar”, che dopotutto non era che una mesta odissea nella cattiveria umana, vista dagli occhi impotenti di un asinello. Nel “Diavolo” non c’è una vera e propria focalizzazione: il punto di vista non coincide con quello di un personaggio, nemmeno col protagonista, ma è come se fosse il mondo stesso a guardarsi, a contemplare la propria innata violenza. Che siano persone, animali o cose, non fa differenza: un macchinario che sparge pesticidi come un dito che preme il grilletto di una rivoltella. E’ sempre l’uomo, con i suoi gesti e le sue responsabilità, dirette o indirette, che genera il Male, in un modo così consapevole da risultare automatico. La grazia (diciamo pure la “bellezza”, tanto per usare un termine assai in voga di questi tempi) c’è, esiste, si manifesta, ma non basta a salvare l’uomo: risiede piuttosto negli attimi più marginali, nei gesti e nelle parole più umili, nello spirito di sacrificio di una donna innamorata, nell’abbraccio fraterno di un amico, nelle cure riservate ad un tossico. Le piccole “buone azioni quotidiane” scaldano il cuore e illuminano l’esistenza, ma solo per un attimo, nel rapido volgere di una inquadratura, nel fuggente lasso di tempo incluso fra due laceranti “cut”: per il resto, per colui che ha compreso i meccanismi che regolano la vita propria e quella degli altri, niente avrà senso (nemmeno la morte) nella breve permanenza in questo mondo terreno. Un autobus frena bruscamente, forse investendo un pedone; la mdp resta immobile all’interno e non sapremo mai come sono andate le cose: è il culmine dell’apatia, dell’indifferenza, dell’ostilità del mondo nei confronti della sofferenza umana. Ad inquadrare l’intero film nella prospettiva di un pessimismo senza redenzione è la specularità fra il funesto incipit “giornalistico” e l’esecuzione finale, una delle più sbrigative ed anti-retoriche uccisioni della storia del cinema. D’altra parte, “Il diavolo probabilmente” è un film che non ci risparmia le visioni più cruente: dal dettaglio della siringa sparata in vena alla foca uccisa a bastonate, fino alla foresta disboscata. Eccezionale e “dissonante”, come sempre, l’utilizzo del sonoro: Bresson ci fa percepire l’atroce boato di un tronco potato, il suono insopportabile di una natura violata; oppure, la sequenza, grottesca, della riunione in chiesa sul cristianesimo, mentre l’organista pulisce ed accorda l’organo emettendo suoni improvvisi e sgradevoli (ogni altri regista avrebbe girato questa scena in chiave rozzamente “metaforica”, laddove Bresson ne fa invece una poetica e disturbante esperienza percettiva).  Film imperfetto, privo dell’intensità dei capolavori di Bresson, resta tuttavia una brillante miniera di intuizioni, spunti, stimoli, approfondimenti di uno dei linguaggi filmici più personali di tutti i tempi.

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