Regia di Takashi Yamazaki vedi scheda film
Sicuramente grande appassionato di manga, Yamazaki a breve distanza dal dittico Parasyte (a sua volta un adattamento di un fumetto, ma di Hitoshi Iwaaki), ritorna con un nuova trasposizione per il cinema di un’opera di Saigan (autore a cui aveva già dedicato la trilogia Always: Sunset on Third Street [2005-2012]).
Con un film fantasy dalle molte suggestioni, senza dubbio in grado di appassionare qualunque cultore del genere, e in particolare i più piccoli (magari ancora di più se bambine con una certa sensibilità a cui spesso paiono immuni i maschietti).
Sì, la narrazione è un po’ divagante (scarsa, ad esempio, la rilevanza della sottotrama investigativa, che serve più che altro solo ad introdurre, debolmente, una serie di personaggi che poi risulteranno di pronta utilità al protagonista messo alle strette; ma anche la parentesi con protagonista il “Dio della povertà” fino alla fine non sembra avere alcuna rilevanza, ed essere più che altro una bizzarra digressione volta semplicemente ad attirare la simpatia del pubblico), presumibilmente a causa della volontà da parte del regista-sceneggiatore di concentrare in un unico lungometraggio tante differenti tematiche e intuizioni contenute nel manga d’origine, ma il film possiede ciononostante (o forse proprio grazie a ciò) una certo fascino; è colorato, suggestivo, spesso molto divertente (tolta la parte centrale che si concentra sul melodramma, non divenendo comunque mai troppo melensa e zuccherosa) e soprattutto pieno di personaggi irresistibili (uno su tutti l’amico che si trasforma in ranocchio gigante per mancanza di “alternative”) e trovate fantasiose (palma d’oro a quella dell’ufficio della morte, preso tra mille tribolazioni e conseguenti ritardi).
Molto affascinante, poi, l’ambientazione in una Kamakura (che non è una città qualsiasi, ma un’antica capitale dell’omonimo periodo) misteriosa, fantastica e fuori dal tempo (nonostante, in un dialogo, si parli dell’epoca Sh?wa [che è compresa tra la fine del 1926 e l’inizio del 1989] come di un periodo relativamente distante nel tempo, nel film infatti non si vede traccia di elementi contemporanei, ad esempio auto recenti, cellulari, computer e affini).
E altrettanto riuscita e ammaliante la rappresentazione dell’aldilà nell’ultima parte, nel corso della quale si rafforza la sensazione di trovarsi quasi di fronte ad un film dello Studio Ghibli con attori in carne e ossa: difatti gli effetti speciali, nonostante le costrizioni di budget, sono decisamente sopra la media, riusciti e mai pacchiani e regalano un’apoteosi visiva fatta di ferrovie sospese, palazzine arroccate dalla prospettive impossibili, isolotti muschiati, cascate vertiginose e natura lussureggiante (ma, d’altra parte, Yamazaki proviene da quel mondo, ed oltre ad aver curato gli effetti di tutti i suoi film ha anche preso parte, ad esempio, a Shin Godzilla di Anno).
Peccato solo che nel finale, negli ultimissimi minuti, il film ceda un poco sul fronte narrativo, nel momento in cui si preoccupa di rivelare i meccanismi di funzionamento dell’altro mondo (è possibile che uno scrittore possieda così poca fantasia, e rischi di conseguenza di mandare tutto all’aria quando in realtà nel momento in cui diventa consapevole di poter agire come una sorta di demiurgo la sfida dovrebbe averla già vinta in partenza?).
Ma per il resto questo Destiny: The Tale of Kamakura (letteralmente, Destiny: Il racconto di Kamakura) si afferma sicuramente come un fantasy di tutto rispetto, ben recitato (davvero simpatici i due protagonisti) e visivamente notevole, piacevole, romantico e delicato, che avrebbe indubbiamente meritato maggior riconoscimento.
Mentre invece è rimasto praticamente del tutto sconosciuto al pubblico al di fuori del Giappone (al di là di alcuni fugaci passaggi per diversi festival) non essendo mai stato distribuito, Italia compresa.
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